"La maternità insegna alle donne una fessibilità che noi sognamo"
«Ci siamo abituati a tutto, ormai. Pensiamo che le assurdità siano la norma. Donne, dovete incazzarvi di più di quanto non facciate oggi». Chiedere a Domenico De Masi, classe 1938 e sulla cattedra di Sociologia del Lavoro dell’Università “La Sapienza” di Roma che cosa pensi della conciliazione tra la vita lavorativa e famigliare di una donna, significa – anche – farsi rispondere senza giri di parole politically correct: «Direi che la prima cosa da sottolineare è che mi sta chiedendo di una donna che lavora, quando il lavoro è invece in questo Paese maschile». De Masi, ma ormai non abbiamo sdoganato questa differenza dei sessi? Siamo nel 2011... «In alcuni luoghi di lavoro vedere una donna all’opera è un fatto in sé. Ed è ancor più significativo nella gerarchia. Non è cosa comune che ad amministrare un’azienda ci sia una donna. Basta guardarsi attorno, è ancora così». Perché questa reticenza, secondo lei? Non viene lasciato abbastanza spazio al rosa? «Anzi, direi che il primo problema delle donne sia l’autostima. Giusto qualche tempo fa si è cominciato a parlare delle quote rosa nei consigli di amministrazione e le donne italiane che fanno? Si chiedono, pensi, se ci siano donne sufficienti a far parte dei consigli d’amministrazione. Sono meno di mille: su 30 milioni di donne ne esisteranno almeno 500 capaci di sedersi in consiglio!? Mai un maschio si sarebbe posto una domanda del genere. Questa è mancanza di autostima». Può essere, De Masi, ma resta il fatto che dopo il parto ci sia un’altra persona della quale prendersi cura. E resta che le aziende questo fatichino ad accettarlo. A volte finita la maternità il contratto non viene rinnovato, altre si è spinte a lasciare. «Questo è il problema serio, certo. Nessuno lo ha affrontato. Ma ci sono Paesi nei quali la leva obbligatoria mette fuori gioco i ragazzi per più di 10 mesi, senza penalizzarli. Perché per una donna invece un figlio dovrebbe farlo?». C’è chi dice che anzi le renda migliori... «Ne sono convinto pure io. L’esperienza della maternità rende la donna più flessibile. È un evento pieno di imprevisti. Il bimbo si ammala, piange... La donna impara una flessibilità difficile da insegnare a un maschio. Un nuovo nato è in questo senso un capitale per l’azienda: la donna durante il periodo di maternità è come se frequentasse uno stage outdoor di flessibilità. Altro che corsi di sopravvivenza per le aziende tra montagne e foreste, meglio partorire un figlio». Già, ma la cosa non è per nulla chiara alle aziende, che spesso non vogliono assumersi l’onere di questo “stage”. Quali strumenti a suo parere possono migliorare la situazione? Il telelavoro, ad esempio? «Il telelavoro risolve poco nei primi mesi di allattamento, perché la donna è spesso assorbita anche psicologicamente dal figlio. Ma è utilissimo nel periodo successivo. È uno strumento che va diffuso e adottato, è importantissimo. Non solo per le donne, anche per i maschi. I lavori non sono più di carattere soltanto fisico. Bastano, spesso, un telefono e un computer. Ma quel che manca è una rete d’aiuto». E qui entra in gioco quindi lo Stato... «Sì, o meglio la società. Affinché la società si faccia carico di questa rete d’aiuto serve una sola cosa: donne in Parlamento, una vera rappresentanza. Che faccia le leggi per le donne. È un circolo virtuoso, ma sono ancora troppo poche». Che ne pensa invece del part time, o dell’asilo aziendale, o della banca ore? Quali altri strumenti sono a suo parere utili per la conciliazione vita-lavoro? «Le aziende temono a concedere il part time. Hanno paura che servano due persone al posto di una. È così, ma non è vero che si produce di meno, anzi. In quattro ore al posto di otto si fa più della metà del lavoro, perché si è più freschi. Con due contratti part time al giorno si ottengono 10-12 ore di lavoro. E comunque se non si fa così si lascia a casa un’intelligenza utile all’azienda: chi ci perde è chi avrebbe bisogno di valido capitale umano. E poi smettiamo di vedere questi strumenti come destinati solo alle donne». In che senso? «Perché se il bimbo si ammala solo la donna deve restare ad accudirlo a casa? Il part time dovrebbe interessare anche i maschi». Sì, ma se è chi porta i pantaloni a prendere lo stipendio maggiore in famiglia... «Proprio qui la volevo: quel che è da combattere è la differenza retributiva. È una vergogna, un’ingiustizia alla quale ci siamo assuefatti. Si risolve combattendo, impossibile aspettare che le cose piovano dal cielo un giorno». Cosa vede all’orizzonte? «Un futuro, neanche tanto lontano, nel quale il 60% dei laureati saranno donne, così come la maggioranza di chi avrà un master di specializzazione. Di che cosa stiamo discutendo allora? Faccio il professore universitario da 40 anni e so che le donne studiano meglio dei maschi, ma la meritocrazia in Italia funziona al contrario. Ben vengano, poi, gli interventi dei privati, che ad esempio costruiscono a loro spese un asilo aziendale. È un esempio positivo, da incentivare». intervista di Giulia Cazzaniga