Santoro (ad Alcor): "Un patto con operai e clienti contro la recessione"

Giulio Bucchi

Confronto. Più che una parola, una bandiera per Alcar. «Abbiamo dimostrato che dialogare con il sindacato e con i lavoratori si può, anzi si deve», spiega Pietro Santoro amministratore delegato dell’azienda e direttore delle risorse umane. Anche su temi caldi come flessibilità e produttività, in un settore difficile come il metalmeccanico, pure in situazione di crisi. Alcar è un’azienda che nasce nel ’62. Di proprietà della famiglia Montinari, produce componentistica leggera e medio-pesante per macchine agricole e movimento terra. Santoro, più di due anni fa i giornali davano notizia della richiesta di cassa integrazione straordinaria. Il vostro settore ha risentito molto della crisi. Cos’è accaduto nel frattempo alla società? «Molto semplicemente, abbiamo gestito un impegnativo turn around, e lo abbiamo fatto con successo. Abbiamo chiuso il 2010 con un fatturato importante, di 35 milioni di euro, a fronte dei 10 milioni del 2009 e dei 70 milioni del 2008. Il budget per il 2011 è di 60. La crisi, è vero, ci ha toccato da vicino, ma non ci ha abbattuto. Cnh - New Holland, Liebherr, Caterpillar: sono solo alcuni dei grandi nomi nostri clienti da sempre. Alcar prima che la recessione nel settore si facesse sentire cresceva ogni anno a doppia cifra. Con lo scoppiare della crisi gli ordini sono andati a picco. Oggi Alcar è una società con due stabilimenti produttivi, uno a Lecce – che impiega 340 persone circa – e uno a Vaie, in provincia di Torino, che conta 250 dipendenti. Seicento persone che, grazie agli ammortizzatori  sociali e soprattutto al dialogo tra le parti, hanno ripreso oggi l’attività produttiva. I nostri collaboratori, i nostri clienti (Cnh in primis), i nostri fornitori e gli istituti finanziari ci hanno permesso, tutti insieme e nessuno escluso, di supportare Alcar anche nei momenti più bui - il 2009 - in cui il fatturato era arrivato a crollare di oltre il 90%». La crisi vi ha insegnato qualcosa? «Essere concentrati nel settore delle macchine movimento terra non si è rivelata la strategia più opportuna a fronte della crisi attuale. Abbiamo imparato a diversificare. Mercato e clientela sono cambiati per evitare di ritrovarsi in situazioni analoghe a quelle del passato. Per questo ci siamo rivolti al mercato delle macchine agricole, meno ciclico e con volumi e dinamiche completamente diverse». Ma questa rifocalizzazione cos’ha comportato per i vostri dipendenti? «Dal 2008 al 2010 abbiamo investito molto in formazione, a tutti i livelli. Abbiamo voluto prendere l’impegno di offrire al nostro personale – nel corso del 2009, l’80% era in cassa integrazione – uno sviluppo professionale nonostante lo stop temporaneo al lavoro. Per gli operai abbiamo investito nel preservare il profilo professionale, dando la possibilità di conseguire certificazioni attraverso dei corsi. È stato un costo, è vero, ma anche grazie a Fondimpresa ce l’abbiamo fatta. E abbiamo scoperto che è stata una scelta azzeccata: ne abbiamo ottenuto dei vantaggi anche nella motivazione del personale e nel mantenimento del know-how. Per quanto riguarda gli altri profili, abbiamo puntato a sviluppare le conoscenze del nostro middle management. Si sono svolti presso primari centri di formazione  - Sda Bocconi e  Cegos, ad esempio - corsi intensivi in tema su qualità,  management delle risorse umane, finanza, controllo di gestione, lean manufacturing, six sigma. Nel 2009 e nel 2010 abbiamo anche dato il via a corsi di perfezionamento delle lingue: inglese, tedesco e francese sono indispensabili per lavorare in Alcar». Alla fine di questo percorso  che bilancio fa? Cambierebbe qualcosa nel mercato del lavoro italiano? «La cassa integrazione è stata uno strumento utilissimo. Ci ha consentito di ammortizzare l’effetto della crisi. Finanziariamente ci sono stati degli svantaggi, ovviamente: è necessario provvedere preventivamente allo smaltimento delle ferie. Nei primi mesi l’impatto è stato significativo. Ma pensiamo a paesi come quelli dell’Est: là il costo della manodopera sarà anche minore, ma di fatto non ci sono tutele per i lavoratori e le aziende in crisi sono state escluse dal mercato. Lo ammetto: da una parte la crisi di Paesi esteri ci ha avvantaggiato, dall’altra le politiche italiane ci hanno consentito di rimanere sul mercato. Difendere i lavoratori e i posti di lavoro vuol dire anche garantire la sopravvivenza delle aziende». Con il ritorno del fatturato ricomincerete ad assumere? «Abbiamo chiuso la cassa integrazione con due mesi di anticipo a Torino e nei tempi previsti a Lecce. L’abbiamo fatto attingendo allo strumento della mobilità solo per quanti  l’hanno richiesta. Avendo l’età per farlo. Abbiamo assunto circa un centinaio di persone, necessarie a sostenere l’aumento dei volumi produttivi, ma non escludo che nei prossimi mesi presenti la necessità   di assumere altre  50 persone da dedicare a saldatura,  verniciatura o alle macchine per il controllo numerico». di Beatrice Corradi