"Gli utili Fiat vadano anche ai lavoratori"
Maurizio Sacconi cita la “intelligenza delle mani” lodata da don Bosco e avverte che obiettivo del governo è anche strappare le nuove generazioni al rischio nichilismo. Nelle parole del ministro la riforma del mercato del lavoro assume i contorni di una sfida etica, nella quale occorrerà conciliare gli (auspicati) utili d’impresa con il recupero morale di milioni di ragazzi. L’operazione in corso prevede pure lo spostamento della contrattazione dal centro verso l’azienda e il territorio, per approdare alla “condivisione delle fatiche e dei risultati” tra impresa e lavoratori. Inevitabile, quindi, iniziare la discussione con Sacconi da ciò che è appena accaduto a Pomigliano e Mirafiori. Ministro, lei ha definito gli accordi firmati in Fiat sotto l’impulso di Sergio Marchionne “una spallata definitiva alla nefasta ombra lunga che si allunga sull’Italia fin dagli anni Settanta e che ha imprigionato le capacità di crescita e di vitalità del Paese”. Da queste parole traspare una continuità tra la politica di Marchionne e quella del governo. È così? "In realtà a questa spallata hanno coraggiosamente concorso i firmatari degli accordi di Pomigliano e Mirafiori, organizzazioni sindacali che si sono assunte la responsabilità di decisioni necessarie a rendere conveniente l’investimento, anche se si tratta di decisioni in certa misura impopolari per il cambiamento dei tempi di lavoro e di vita che producono. Per fortuna in Italia c’è un blocco sociale di produttori, lavoratori dipendenti e indipendenti, imprenditori, che condivide con il governo l’esigenza di abbandonare tutte le residue conseguenze dell’ideologia classista e del rigido controllo sociale sulla produzione, per indurre un circolo virtuoso fatto di piena e flessibile utilizzazione degli impianti, maggiore produttività del lavoro e più alti salari". Cosa risponde a chi voleva un governo “neutrale” rispetto alla trattativa tra sindacati e Fiat? "Rispondo che il governo è rimasto neutrale nel negoziato. Piuttosto, ha messo a disposizione delle parti una più ampia definizione del salario detassato in quanto collegato ad accordi di maggiore produttività. Una volta siglato l’accordo, il governo lo ha difeso, dichiarandosi anche pronto ad accompagnarlo con i necessari ammortizzatori sociali nelle fasi di transizione. L’alternativa sarebbe stata la rinuncia all’investimento e una conflittualità senza sbocco". Cosa si attende adesso il governo da Marchionne e dalla Fiat? "Ovviamente ci attendiamo l’attuazione degli investimenti e un’attenta gestione delle risorse umane quale è stata promessa dallo stesso amministratore delegato di Fiat, il quale ha dichiarato che il ricorso al sabato lavorativo sarebbe stato l’estrema ratio e che circa il venti per cento degli addetti avrebbe potuto non partecipare al lavoro straordinario, ove si fossero accertate specifiche esigenze personali o familiari. Ci aspettiamo pure un adeguato investimento formativo e una crescita dei salari legata non solo alle turnazioni e allo straordinario, ma riferita anche ai risultati e - perché no? - agli utili dell’impresa". Lo spostamento del baricentro contrattuale dal piano nazionale a quello territoriale e aziendale proseguirà nei prossimi anni? E cosa resterà, alla fine, del contratto nazionale di lavoro? "Il contratto nazionale è destinato a sopravvivere come cornice essenziale, utile a regolare il rapporto di lavoro ovunque la contrattazione si esaurisca nella dimensione nazionale, ma cedevole rispetto ad un accordo aziendale o territoriale, in quanto le intese prossime al lavoro e all’impresa appaiono più capaci di realizzare l’incontro tra le esigenze delle parti, in un clima di pragmatica condivisione delle fatiche e dei risultati". In questa fase un ruolo importante lo avrà il nuovo segretario generale della Cgil, Susanna Camusso. Che giudizio dà delle sue prime mosse, anche alla luce dell’atteggiamento tenuto nel confronto con la Fiat? "Temo che abbia perso qualche opportunità importante per far prevalere la posizione dell’intera confederazione rispetto all’approccio ideologico-corporativo di una singola categoria. Ora mi auguro che possa guidare la Cgil verso un approdo più pragmatico, più disponibile alla mediazione con gli altri sindacati, più capace di comprendere le esigenze vitali delle imprese, che per cogliere le opportunità di mercato devono poter prendere decisioni in tempo rapido". Gli ultimi dati Istat fotografano una disoccupazione giovanile arrivata alla quota record del 28,9%, il valore più alto dal gennaio del 2004. Si aspettava un dato così negativo? A cosa lo imputa? "Purtroppo da lungo tempo l’Italia conosce una più persistente esclusione dei giovani dal mercato del lavoro e un più evidente divario territoriale. I giovani pagano il prezzo della decadenza del sistema educativo iniziata negli anni Settanta; di modelli culturali che hanno fatto perdere il senso del lavoro e la disponibilità alle conoscenze pratiche, come la manualità; di una regolazione che, nonostante sia stata largamente riformata, richiede ancora alcune azioni di completamento". Lei coordina la cabina di regia per l’attuazione del Piano nazionale per l’occupabilità dei giovani. Potevate fare di più? "Siamo all’opera per rimuovere i guasti di una lunga stagione che ha diffuso nichilismo, irresponsabilità, incompetenza. Nessuno si illuda che si possa trattare di un percorso facile, magari risolvibile con incentivi pubblici o con un tratto di penna legislativo. Il grande cambiamento in atto nel mondo, soprattutto nelle società di tradizionale industrializzazione, accentua la necessità di una rivoluzione culturale nel segno della responsabilità, del riconoscimento del valore della vita quale premessa per il vitalismo lavorativo, dell’impegno per conseguire continuamente le competenze utili a sé e agli altri". Quali interventi state preparando per ridurre l’occupazione giovanile? "Proprio in questi giorni, con i colleghi Gelmini e Meloni, si è avviato un monitoraggio relativo all’attuazione del Piano di azione per l’occupabilità dei giovani Italia 2020, per il quale sono impegnate risorse per oltre un miliardo di euro. La priorità non è solo il contrasto alla disoccupazione giovanile, ma anche l’esigenza di superare l’inattività, misurata in quasi due milioni di ragazzi che non studiano, non lavorano né cercano impiego. Ragazzi a rischio di deriva e nichilismo". In concreto: che obiettivi hanno le misure avviate? "Innanzitutto hanno lo scopo di superare il disallineamento, in Italia più evidente che altrove, tra le competenze richieste dal mercato del lavoro e quelle depositate dai percorsi educativi. A questo scopo è stata raddoppiata l’attività di monitoraggio dei mestieri evidenziati dalla domanda delle imprese, portandola ad una cadenza trimestrale e ad una articolazione territoriale di tipo provinciale. Le stesse conoscenze dei giovani sono periodicamente rilevate su base campionaria e attraverso la valutazione delle attività educative. Sono stati poi potenziati i servizi per l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, dal motore di ricerca istituzionale www.cliclavoro.gov.it agli uffici di orientamento e collocamento nelle università, destinati ora a riprodursi nelle scuole superiori. Tutto il processo riformatore nelle scuole di ogni ordine e grado, così come nelle università, si muove adesso nel segno della necessaria integrazione con il mercato del lavoro e della conseguente rivalutazione delle stesse conoscenze pratiche. Le nuove linee guida per la formazione riconoscono il primato dell’apprendimento in ambiente lavorativo e l’utilità di certificazioni sostanziali delle competenze effettive. Il Piano infine individua nel contratto di apprendistato il modo migliore per transitare dalla scuola al lavoro, in termini convenienti tanto per i giovani quanto per le imprese". Come pensate di far diventare il contratto di apprendistato uno strumento diffuso? "Valorizzandone non solo la forma di tipo professionalizzante, per chi è al primo impiego, ma anche la possibilità di scuola-lavoro a partire dai quindici anni e la modalità che permette l’alta formazione, anche universitaria, per i giovani che vogliono conseguire un titolo di studio lavorando. Il Piano Giovani sostiene la diffusione di questo contratto soprattutto nell’artigianato, in modo da incoraggiare le nuove generazioni a scoprire il fascino del lavoro manuale, coltivando quella “intelligenza nelle mani”, come diceva don Bosco, che non è una vergogna, ma un talento". di Fausto Carioti