Serviranno risorse private per i nuovi paracadute sociali
Un giuslavorista, un imprenditore, un sindacalista, un avvocato del lavoro: su una cosa sono tutti d’accordo. «Bisogna riformare gli ammortizzatori sociali». Sul modo, però, le ricette si differenziano e le strade divergono. Ma è già molto concordare - in un Paese perennemente diviso su tutto - almeno sulla necessità di riformare gli ammortizzatori sociali per aggiornarli ai tempi. E al tradizionale incontro con le istituzioni organizzato anche quest’anno dalla Hrc Academy tutte le parti in causa, che hanno raccolto l’invito di un tavolo comune di approfondimento propposto dal presidente di HR Community Academy, Giordano Fatali, hanno concordano: è il momento di intervenire. E di cambiare. Insomma «bisogna uscire dalla logica degli ammortizzatori. Anche se», spiega Giorgio Santini, segretario confederale della Cisl, «dell’ennesima proroga avremmo fatto volentieri a meno, ma è stato un passo necessario. Il tema centrale però resta come riassorbire il bacino di disoccupati oggi in Cassintegrazione. Quindi servono», prosegue il sindacalista, «politiche del lavoro adeguate e utilizzare il periodo di Cig per risolvere i paradossi: vale a dire oltre 100 milioni di ore autorizzate a fronte di ben 140mila posti di lavoro disponibili che restano incredibilmente senza pretendenti». Chi paga gli ammortizzatori, come le aziende industriali, ci tiene ad una modifica. E anche in tempi brevi: «Sediamoci attorno a un tavolo», propone Giorgio Usai, direttore dell’area rapporti sindacali di Confindustria, secondo il quale gli ammortizzatori «si possono e devono riformare. Ci sono tutte le condizioni». Ma non c’è bisogno di buttare via l’acqua sporca con il bambino, frena Usai. «Proprio in questi anni molti piangono, mentre alcuni Paesi come la Germania ce li copiano come hanno fatto recentemente con gli accordi di solidarietà che da noi sono funzionali da anni», rivendica con orgoglio il rappresentante di Confindustria. Che però su un punto proprio non vuole cedere: chi li utilizza deve anche pagarli. Poi Usai riconosce al governo di aver dato struttura (finanziaria) al motto “nessuno verrà lasciato indietro”, e ammette che l’impegno economico è stato oneroso. Ciò che proprio non piace all’industriale è la corsa - favorita dal terrore della precarietà - ai concorsi pubblici perché le famiglie continuano ad instillare nei figli la logica del posto sicuro. Insomma, per gli industriali bisogna smetterla di demonizzare il lavoro nelle imprese anche perché il precariato che c’è è concentrato soprattutto nella pubblica amministrazione, nella scuola, nella sanità. E cita dati che avvalorano la sua tesi: «I precari nelle imprese private», assicura il direttore dei rapporti sindacali confindustriali, «rappresentano solo il 5% della forza lavoro contro una media europea del 15%». E poi resta il problema dei lavoratori nelle liste di mobilità che, assicura Usai, «alla proposta di un posto di lavoro nove volte su dieci rispondono “no, grazie”». Sul fatto che sia necessario intervenire concorda anche un altro “addetto ai lavori” come Stefano Colli-Lanzi, amministratore delegato di Gi Group, società internazionale che opera nel campo delle risorse umane. «Gli schemi tradizionali», premette, «in questo momento appaiono insufficienti. Per questo bisogna cominciare a guardare avanti senza però buttare via i vecchi strumenti». E poi il manager cita l’esperienza vissuta proprio dentro al gruppo in questi ultimi anni difficili. «Per mantenere aperte le filiali siamo anche ricorsi ai contratti di solidarietà», racconta Colli-Lanzi. Però con un inizio di 2010 in leggera ripresa i lavoratori «sono usciti dal contratto di solidarietà prima del termine senza sfruttare il sistema». Insomma, il problema dei furbetti che sfruttano le maglie degli ammortizzatori per guadagnarci esiste, sia tra i lavoratori che tra le imprese. E non ne fa mistero Francesco Rotondi, avvocato e socio fondatore dello studio LabLow. «Qualche volta», premette, «gli ammortizzatori sono stati adoperati per operare ristrutturazioni aziendali», dice senza troppi giri di parole. Per dirla con le parole dell’ex ministro del Lavoro, e senatore del Pd Tiziano Treu, «siamo immersi in un sistema ingessato». Anche l’esperto di previdenza, e parlamentare del PdL, Giuliano Cazzola, concorda che si deve compiere «un cambiamento di carattere culturale. Oggi pensiamo che il risparmio sia un fatto privato delle persone e delle famiglie», chiarisce l’ex sindacalista, «mentre tocca allo Stato provvedere ad assicurare i diritti sociali. Bisogna invece porsi il problema di destinare risorse private a provvedere ad esigenze di carattere pubblico ed obbligatorio».