Il numero uno della Uil al governo: "E ora giù le tasse per tutti"
di Attilio Barbieri - Relazioni industriali, politica fiscale a carico del lavoro, nuovi modelli contrattuali e nuove relazioni industriali: Libero Lavoro ha chiesto al segretario generale della Uil Luigi Angeletti di fare il punto di quel che sta accadendo. Il 9 ottobre scendete in piazza per chiedere al governo di aprire una stagione di detassazioni vere. Tremonti ha detto che dopo il periodo del rigore è arrivato quello dello sviluppo: possiamo aspettarci che il governo metta in campo azioni concrete per lavoratori e famiglie? Oppure corriamo il rischio che non succeda nulla come negli ultimi diciotto mesi? «Il governo non ha alternativa. Deve aprire una stagione di riforme a partire da quella fiscale. Deve farlo nell’interesse del Paese e nell’interesse dell’esecutivo. Anche se quest’ultima è una valutazione che spetta a loro». A proposito di famiglie cosa pensa del quoziente familiare, il meccanismo che spalma i redditi su tutti i componenti, anche sui minori, e abbatte così le aliquote? «Bisogna intervenire sulla fiscalità a carico delle famiglie. La nostra posizione è chiara: servono bonus o detrazioni, legati però a ogni singolo figlio. Il meccanismo deve essere al tempo stesso efficace e giusto. Da tempo siamo alle prese con un serio problema demografico: non cresciamo più. Le coppie devono essere aiutate tangibilmente se si vuole che nascano più bambini. Allevare un figlio comporta dei costi che molti nuclei familiari non riescono più a sostenere. Bisogna avere il coraggio di affrontare il problema della denatalità» Questo chiederete il 9 ottobre? «Anche questo: forti detassazioni sulla famiglia e sul lavoro. E non lo facciamo perché siamo dei sindacalisti. Non bisogna fare gli economisti per comprendere che nel nostro Paese continua ad esistere un enorme cuneo fiscale sul lavoro, il rapporto fra il costo lordo del lavoro e la retribuzione netta. Poi c’è un problema nel problema: il costo del lavoro per unità di prodotto, cioé la produttività. Noi vogliamo affrontare entrambi i problemi, sia quello della produttività sia quello del carico fiscale». Fisco più leggero su chi lavora e sulle aziende, bonus per le famiglie, produttività e redditi più alti. Per riscrivere le regole fino a questo punto non diviene inevitabile sedersi tutti attorno a un tavolo per scrivere un nuovo patto sociale? «Sì penso che sia necessario. Ma a una condizione: non può trattarsi solo di un documento puramente formale. Si devono produrre dei cambiamenti. Veri, reali, tangibili per tutti. È un passaggio necessario e posso anticipare a Libero che presto verrà formalizzata una proposta in questo senso da parte delle imprese». Il modello Pomigliano è al centro del confronto politico e sindacale. Contrariamente a quanto avevano detto un po’ tutti, a cominciare dal ministro Sacconi, si tratta ora di far diventare davvero l’accordo per lo stabilimento campano della Fiat un punto di partenza per nuove intese fra imprese e lavoratori. È giusto? Oppure hanno ragione quanti sostengono che le troppe deroghe concesse rischiano di snaturare il rapporto di lavoro? «Le deroghe? Sono pochissime e tutte circoscritte. Per quanto riguarda l’utilizzo degli impianti in termini di turni, saturazioni, pause, non c’è stata alcuna deroga al contratto nazionale di lavoro che già prevede si possa lavorare otto ore al giorno per cinque giorni la settimana, sedici ore al giorno su due turni, ventiquattro ore giornaliere su tre turni. Sono eventualità già previste dal contratto. Non bisogna interpretarlo. Dunque da questo punto di vista non c’è stata alcuna deroga. E non c’è neppure la necessità di introdurla». Ma allora in cosa consiste il modello Pomigliano? «Le novità introdotte da quell’accordo riguardano solo i picchi di assenteismo per i quali prevede, come potrebbe dire il capo del personale della Fiat, rimedi che si avvicinano all’acqua fresca. Qualora si verifichino picchi di assenze non giustificate neppure da epidemie, si riunisce una commissione per decidere cosa fare. La commissione composta da rappresentanti dell’azienda e dei lavoratori può decidere anche cose diverse da quelle previste dal contratto. L’intenzione è proprio quella. Ma non esiste un automatismo. Abbiamo semplicemente assunto l’impegno di discutere con la Fiat in presenza di casi di assenteismo massiccio». E gli scioperi? «L’azienda ha chiesto di estendere la norma contrattuale già in vigore che le dà il diritto di chiamare a lavorare i dipendenti al sabato, fino a raddoppiarla. Fiat ha detto: se facciamo un patto sui sabati lavorativi chiediamo ai sindacati di impegnarsi a non rimangiarsi l’intesa sottoscritta ora. Facciamo un accordo e impegniamoci a rispettarlo. L’unico modo per opporsi al lavoro straordinario il sabato è quello di fare sciopero. Questo ha chiesto l’azienda: un impegno a non scioperare in violazione dell’accordo che si stava discutendo. Ove fosse successo sarebbe scattata una penale con la revoca di permessi sindacali». Quindi il no della Fiom… «Si spiega in un sol modo: vuole poter decidere quando le pare se mantenere oppure no i patti sottoscritti». Ma allora ha ragione Marchionne? «Se vai in giro per il mondo a dire che vuoi produrre automobili a Pomigliano ti prendono per matto, vista la pessima fama che abbiamo. Fiat ha chiesto di negoziare le condizioni prima di investire sull’impianto campano. Ha chiesto garanzie sul rispetto dei patti. Tutto qui. In un mondo alla rovescia come l’Italia ci si può scontrare pure su questo ma in qualunque altra parte d’Europa sarebbe considerata una cosa da matti. Pensi che alla Opel il sindacato tedesco, tutto fuorché accomodante, ha accettato una riduzione delle retribuzioni, mentre l’accordo di Pomigliano prevede un aumento. I tedeschi, per salvare lo stabilimento Opel in Germania hanno accettato di tagliare gli stipendi e in cambio della promessa di non licenziare, di dilatare l’orario di lavoro. Questo fra l’altro spiega come mai quando General Motors voleva vendere la Opel c’è stata la corsa a comperarla, mentre quando la stessa Gm doveva rilevare il controllo della Fiat ha pagato due miliardi di dollari per non farlo». Parliamo ora di precarietà. I contratti a termine sono diventati il simbolo da combattere per quanti sono contro la flessibilità nel lavoro, anche se rappresentano la norma per i giovani che entrano nel sistema produttivo. Non ha senso a questo punto che i giovani cui le imprese li propongono guadagnino di più? Meno sicurezza ma una retribuzione più alta… «Certo che ha senso. È questo l’aspetto veramente patologico nel nostro sistema: si paga meno chi ha un contratto a tempo determinato mentre bisognerebbe dare più soldi al dipendente e versare più contributi previdenziali». Visto che si parla di un nuovo patto sociale, ha senso aspettarsi che affronti questo aspetto? «Direi proprio di sì». Ma quale sarà l’elemento centrale del nuovo contratto fra le diverse componenti della produzione? Per ragionare in termini marxiani: quali le nuove relazioni fra capitale e lavoro? «Non dobbiamo più finire nella trappola in cui siamo caduti all’inizio degli anni Novanta: la politica della moderazione salariale. Che ha significato soprattutto bassi salari e bassa produttività. Se le imprese imparano che la manodopera costa poco ed è più economico impiegare una persona in più anziché aumentare la produttività, facendo investimenti e riorganizzando i processi, tutte cose rischiose e difficili, scelgono la strada più comoda. Ma così scendono i salari e scende la produttività. Se si va a guardare l’andamento della produttività dei maggiori Paesi industrializzati, noi siamo stati nel gruppo dei primi al mondo fino al 1993. Da allora la nostra produttività ha cominciato a scendere. Colpa della moderazione salariale». Dunque se le imprese con i nuovi accordi contano di pagare ancora meno il lavoro sbagliano? «Molte lo hanno capito. Soprattutto quante hanno visibilità sull’estero. Non sono pochi gli imprenditori che ammettono l’esistenza di un problema salariale. . Hanno capito che il vantaggio di comprimere i costi per la manodopera è effimero, momentaneo e si paga caro alla distanza». Si è inceppato il meccanismo che ha fatto del nostro Paese la settima potenza economica mondiale? «Da troppo tempo in Italia si sono redistribuiti posti di lavoro, comprimendo le retribuzioni abbiamo tenuto bassa la disoccupazione. Costa così poco assumere che si preferisce prendere un dipendente in più, pagandolo quattro soldi, piuttosto che agire sui processi e sull’organizzazione. Investendoci dei soldi. Negli ultimi dieci anni il nostro tasso di disoccupazione è sempre stato sotto a quello della Francia e spesso anche alla Germania. I tedeschi senza lavoro sono balzati addirittura a 5 milioni, quando noi ne avevamo poco più di due. Poi è successo che le imprese tedesche si sono ristrutturate, hanno investito e licenziato». Ma non è un discorso da sindacalista questo... «Sa qual è il finale di partita? In Germania si torna ad assumere e quest’anno per la prima volta da molto tempo il tasso di disoccupazione è più basso del nostro».