Giovani emarginati senza una nuova formazione

Tatiana Necchi

di Giulia Cazzaniga - È questione di «volgerla in positivo». Che non significa avere le fette di salame sugli occhi, perché «la crisi economica sta facendo e farà selezione tra le imprese», perché «i giovani oggi rischiano di perdere la motivazione», perché il nostro mercato del lavoro «è figlio di un ingessamento durato a lungo». Ma per Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la sussidiarietà (nata nel 2002 per sua iniziativa insieme a un gruppo di accademici ed esponenti del mondo culturale e imprenditoriale) «i campi d’azione oggi sono tantissimi, basta volerli vedere». Vittadini, iniziamo dal “principio di sussidiarietà”. Un passo indietro dello Stato è davvero una strada concreta per uscire dalla crisi? «Partiamo dai fatti. La situazione di 20 anni fa era quella di un mercato del lavoro ingessato dalla burocrazia, tutto passava per un apparato burocratico che impediva l’incontro tra domanda e offerta. Poi il pensiero di uomini come Marco Biagi e Michele Tiraboschi e un’impostazione sindacale aperta – penso ad esempio al mondo Cisl – hanno fatto nascere l’idea che domanda e offerta possono collaborare. Non solo attraverso lo Stato, ma anche grazie a quei soggetti che sono più in grado di superare quella vischiosità che impediva all’offerta di conoscere la domanda. Nuove forme contrattuali hanno permesso e permettono ancora oggi di superare la vecchia asimmetria di informazione, cioè il fatto che il singolo lavoratore non è in grado di conoscere la situazione del mercato del lavoro». Per molti, però, questo cambiamento ha prodotto il problema del precariato. «Ai detrattori, a chi dice che il precariato alimenta la disoccupazione, si risponde con quattro passaggi fondamentali. Primo, la popolazione attiva in Italia è più bassa che altrove. Ed è – lo dicono gli ultimi dati – destinata a decrescere. C’è meno gente che cerca lavoro. Secondo, c’è una fascia della popolazione che preferisce il lavoro flessibile. Non lo subisce. Penso alle donne, che hanno l’esigenza di coniugare lavoro e famiglia, ma anche a molte partite Iva. Terzo, se non ci fosse quello che chiamano “precariato”, molta gente che oggi è occupata non lavorerebbe per niente. Quarto e ultimo, ci sono Regioni in cui – penso alla Lombardia – il 72% di contratti interinali si sviluppano entro 42 mesi in contratti a tempo indeterminato (ricerca Crisp). L’indeterminato oggi non è più quello di un tempo. Le persone non desiderano più fare lo stesso lavoro per 40 anni, ma anzi cercano di cambiare continuamente. L’aspirazione, oltre alla sicurezza di un posto di lavoro, è al miglioramento e quindi al cambiamento. Si fa carriera se si migliora». La stangata della crisi rischia però di bloccare questa dinamica... «Oggi stiamo assistendo a una lenta ripresa, purtroppo però su 100 imprese solo 50 ce la faranno, soprattutto nella manifattura. Quindi a un miglioramento non corrisponderà un aumento parallelo di occupazione, che sarà anzi un problema sempre più grande. Proprio per questo diventa imprescindibile puntare sui servizi. Per ogni euro che verrà fatturato in più nel manifatturiero  serviranno nuove professionalità. Penso alla logistica,  alla manutenzione di software. Ci sono settori che devono trovare spazio. E lo troveranno proprio grazie al lavoro flessibile, che consentirà di accedervi. Il secondo problema generato dalla crisi è quello della competitività. Penso ai 50enni o a chi vive situazioni di disagio. Ma non vogliamo un mondo dei vinti, né una risposta come “salari uguali per tutti”. Lottare contro il precariato non significa sostenere una politica egualitaria dove salari, stipendi e qualifiche non sono legate a capacità personali e produttività. Diventa importante la realtà sociale, diventa fondamentale il welfare sussidiario, lo Stato non può farcela da solo». E chi può dargli una mano? «Faccio l’esempio del Banco alimentare, che recupera le eccedenze alimentari ridistribuendole gratuitamente ad associazioni ed enti caritativi. Lavorano a questo progetto anche 200 pensionati, il loro aiuto è importante. Penso insomma a tutte quelle realtà private che si sono messe all’opera negli anni e che oggi generano valore aggiunto. Nel mondo dell’assistenziale, dell’educativo, del formativo. Penso a chi lavora per la natura o per la cultura. Serve in tutti questi campi un’alleanza tra Stato e realtà sociali. Servono sgravi fiscali sulle donazioni, ad esempio. Servono contratti meno appesantiti dal fisco che in altri campi. Basta con gli sprechi nel pubblico, c’è bisogno di risorse laddove si possono generare opportunità». Per i giovani, per esempio? Sacconi li ha definiti una “generazione bruciata”. «È vero, ma volgiamola in positivo: sono recuperabili. Quel che manca loro è la motivazione. La formazione è sempre stata addestramento, non educazione. È stato questo l’errore fondamentale. Ma l’uomo non è un animale, bisogna dare al giovane la ragione per cui lo si sta formando. Un metodo alla don Bosco, insomma. O abbiamo il coraggio di affrontare questa responsabilità o creeremo una società di emarginati». Il cambiamento parte dalle università? «Certo, soprattutto. Il “più due” e la proliferazione di master non hanno funzionato. La specializzazione non ha fatto in tempo ad attrezzarsi. Non è la classe sociale di partenza a discriminare, ma l’insegnante, la motivazione e l’aspettativa. È su questi tre aspetti che bisogna intervenire al più presto. Ma non è un cambiamento da fare con un decreto ministeriale. Anche in questo caso urge la collaborazione tra chi la passione per il lavoro ha imparato a coltivarla negli anni e le istituzioni». Può farci qualche altro esempio di luoghi dove si generano opportunità? «Ci sono realtà formative nate negli ultimi anni dall’alleanza tra imprenditori e realtà sociali. Altro che le vecchie agenzie statali, lì si fa formazione diretta. Mi viene in mente “Cometa”, a Como, o la Piazza dei mestieri in Piemonte. Realtà che vogliono favorire la preparazione e l’avviamento dei giovani al lavoro, migliorando e innovando i servizi educativi, ponendo attenzione particolare alle politiche di inclusione sociale e alla prevenzione delle diverse forme di disagio giovanile e ai fenomeni di dispersione scolastica. L’obiettivo è quello di far sorgere centri di aggregazione polivalenti per giovani, introducendo e sperimentando modalità di cogestione dove gli stessi possano accedere a una pluralità di proposte, dall’orientamento alla formazione tecnico-professionale, dalle attività culturali a quelle sportive. Non meno importanti sono le comunità sociali che si occupano di recupero degli handicap psichici, o della droga. In carcere stanno nascendo lavori socialmente utili. La sanità oggi si basa sulla cura dell’acuto, ma manca chi pensa e si occupa del cronico. Le Regioni del Sud possono beneficiare del ripristino ambientale. È a questo tipo di attività che dobbiamo guardare».