Ora arriva anche il maggiordomo per fare le code
di G.C. - Mamme, aziende, istituzioni e parti sociali. Sono quattro gli attori sulla scena della conciliazione. Famiglia e lavoro, molto spesso, sono due impegni che diventano inconciliabili. Ma per le donne che vogliono continuare a lavorare e realizzarsi, oltre che per le aziende che hanno bisogno delle loro competenze, è un limite da superare al più presto. E non si tratta solo di corrispondere agli obiettivi del Trattato di Lisbona, per l’occupazione femminile. In gioco, come spiega Gianluigi Petteni, della Cisl, «c’è una visione di vita e insieme il futuro delle aziende. Chiedere a una dipendente di non fare figli dopo l’assunzione – un grave comportamento di alcuni imprenditori, che si ripete troppo di frequente e che purtroppo è difficilmente monitorabile – cambia la visione della vita della persona, crea una ferita. E le aziende soprattutto dovrebbero comprendere che il futuro dell’impresa sta nella flessibilità. Decentrare la contrattazione e portarla sempre più nei luoghi di lavoro può forse essere la strada per migliorare la situazione». «Si tratta», continua Petteni, «di trovare un equilibrio tra le esigenze aziendali e quelle della persona. Qualche segnale positivo c’è, ma occorre fare di più». La Lombardia è tra le Regioni italiane che meglio si stanno attrezzando in questo senso. La Regione ha destinato nel bilancio 2010 10 milioni di euro per la realizzazione delle politiche di conciliazione famiglia-lavoro, e cioè «per aiutare», come racconta l’assessore regionale alla famiglia e alla solidarietà sociale, Giulio Boscagli, «il singolo e la famiglia ad affrontare positivamente i mutamenti del mondo del lavoro. Per questo è stato creato un Comitato strategico». «In Lombardia», continua Boscagli, «si è vicini al 60% dell’occupazione femminile, e questo vuol dire che qui le problematiche che riguardano le donne al lavoro si sono fatte sempre più pressanti». «La sensibilità del mondo dell’impresa sta crescendo di pari passo», dice l’assessore, «e si stanno estendendo percorsi di facilitazione. Il ruolo che l’istituzione pubblica deve svolgere – e ci stiamo muovendo in questa direzione – è quello di mettere in moto i servizi alla persona. Penso al terzo settore, alle realtà grande e piccole che, l’esperienza lo dimostra, vanno incontro alle esigenze delle donne o dei giovani in difficoltà. Lo Stato, il pubblico in generale, deve estendere la concezione di welfare dall’assistenzialismo al coordinamento delle realtà positive». Asili aziendali, contratti flessibili, iniziative come fare la spesa per i dipendenti impegnati in ufficio: sono i primi segnali di un cambiamento che non può però essere solo lombardo. Ma di cosa hanno bisogno le mamme che desiderano continuare a lavorare? Anna Zavaritt e Cecilia Spanu sono innanzitutto due mamme. Anna ha due figli, Cecilia quattro. Entrambe in passato si sono occupate del problema donne-lavoro, anche se in modo diverso. Qualche tempo fa hanno unito le forze e lanciato il primo servizio di intermediazione professionale rivolto alle mamme che lavorano. Si chiama “Moms@work” e, come spiega Zavaritt, è un progetto che in primis vuole «raccogliere i curriculum delle donne qualificate e motivate che per esigenze di conciliazione abbiano lasciato il mondo del lavoro o che vorrebbero un lavoro più flessibile». Secondo passo, il contatto con le aziende. Per recensire le iniziative positive, per stimolarne di nuove, per fare consulenza agli imprenditori che vorrebbero saperne di più. «La nostra priorità», racconta Spanu, «non è in questo momento raccogliere le denunce di situazioni difficili, quanto stimolare la crescita di nuove esperienze, anche facendo riferimento a quanto accade all’estero». Si va dal telelavoro al lavoro a isole (e cioè l’orario autogestito). Dalla banca delle ore alla baby sitter a domicilio, passando per il maggiordomo aziendale che disbriga le pratiche burocratiche o la lavanderia. Poi rientrano negli strumenti di aiuto anche i centri estivi, le ludoteche e il sostegno per i compiti, i servizi navetta per i famigliari dei dipendenti e l’ampliamento degli orari degli asili aziendali. Moms@Work ha già creato una banca dati di profili qualificati, con la raccolta di 3mila curriculum. Ha censito le criticità affrontate dalle aziende nell’attuazione della conciliazione: sono un’ottantina quelle interpellate, tra piccole, medie e grandi imprese. Tra le aziende contattate, il 21,8% ha un approccio integrato alla flessibilità come conciliazione, mentre quasi la metà ha introdotto la flessibilità oraria per un periodo limitato e prevalentemente attraverso il classico part-time. L’efficacia della gestione attiva delle proprie risorse è provata, spiegano Zavaritt e Spanu, dal fatto che si riscontri una forte fidelizzazione all’azienda da parte delle dipendenti interessate, con un alto tasso di rientro dopo la maternità, un basso turnover e l’alta redditività del capitale umano. Alla San Pellegrino, per esempio, la gestione attiva della maternità ne ha ridotto il costo dallo 0,23% allo 0,14%. Quello che ferma le aziende, spiegano ancora le ideatrici del progetto, è innanzitutto una scarsa conoscenza del contesto normativo e organizzativo da utilizzare per attuare la flessibilità del lavoro. E un 20% lamenta invece troppa rigidità normativa. Tra le esigenze aziendali ci sono in primis le agevolazioni fiscali (72% degli intervistati), poi asili e scuole (69%). Al terzo posto una maternità più flessibile e in ultimo (62%) un coordinamento territoriale.