"Basta cambiare regole, al mercato servono certezze"
Sui cambiamenti in atto nel mercato del lavoro, nella formazione e nella delicata fase del ricollocamento dei disoccupati abbiamo sentito Stefano Colli-Lanzi. Classe 1964, milanese, sposato con cinque figli, di cui tre in affidamento, è amministratore delegato di Gi Group, che ha fondato nel 1998. Inoltre, è professore di economia aziendale all’Università Cattolica di Milano e vicepresidente di Assolavoro, l’associazione che riunisce le agenzie per il lavoro che operano in Italia. Di cosa ha bisogno il mercato del lavoro nel nostro Paese? «Lo sviluppo sostanziale di una cultura del realismo e della responsabilità, rispetto a tutti i soggetti coinvolti: Stato, parti sociali, lavoratori, aziende e intermediari. È un mercato in cui si sono verificate tantissime innovazioni, dalla legge Treu fino alla Biagi, provvedimenti che hanno disegnato l’infrastruttura di un mercato moderno, ma che con la crisi ha mostrato alcuni limiti. Ora si richiede un’accelerazione per mettere in pratica quanto previsto dalla legge Biagi». Pensa ad una maggiore flessibilità in uscita? Licenziamenti più facili, insomma? «Il vero problema che si pone oggi non è quello di favorire o contrastare la possibilità di licenziare un dipendente: da questo punto di vista la crisi ci ha messo di fronte alla dura realtà: i licenziamenti sono avvenuti comunque in modo copioso e inarrestabile. Ora si tratta di costruire le condizioni per cui, a fronte del licenziamento, il sistema sia in grado di supportare il ricollocamento delle persone espulse dalle aziende». Cosa pensa della flexicurity? Tutti licenziabili ma anche tutti assistiti e aiutati a trovare un nuovo lavoro... «È sicuramente un tema forte e il nostro mercato del lavoro ha già preso in parte questa direzione. Si tratta di capire che la normativa esistente non va continuamente riscritta, ma resa operativa. Un ottimo esempio da questo punto di vista è la Legge Biagi che delega alle parti sociali l’attuazione di una parte notevole della normativa». Concretamente cosa significa? «Significa che le parti sociali possono essere in grado di sviluppare modelli di intervento per coniugare le esigenze di flessibilità delle imprese e le esigenze di sicurezza dei lavoratori...». E in che modo? «Attraverso la contrattazione collettiva, anche a livello territoriale e aziendale e soprattutto con la bilateralità che ha dimostrato di poter contribuire a realizzare le politiche attive». Ma allora è giusto o sbagliato puntare sul contratto unico? «Penso che la molteplicità delle forme contrattuali sia una ricchezza, non un limite. Molte volte determinati contratti non vengono usati in quanto non sono capiti. In questo modo era stato abolito lo staff leasing dicendo che non funziona. Mentre ha dietro di sé un mondo di opportunità». Secondo lei cosa significa dare ulteriore flessibilità? «Riconoscere, dare dignità a strumenti contrattuali che ancor oggi vengono ritenuti di serie B e quindi non vengono considerati». Per esempio? «Le collaborazioni, il lavoro autonomo, l’appalto, lo staff leasing, le prestazioni occasionali. Ciascuno di questi strumenti ha una funzione e gli si deve riconoscere una propria dignità. Il fatto per esempio che noi di Gi Group ci occupiamo di somministrazione non deve significare che siamo contro l’appalto. Sarebbe una posizione miope. Oggi invece si tende a riconoscere dignità solo al lavoro a tempo indeterminato. Tutto il resto finisce in una specie di limbo». Già, ma con la crisi sembra giunto il tempo delle scelte. Ora o mai più... «Starei molto attento a imboccare questa strada. Con la scusa di superare le grandi difficoltà in cui ci troviamo si potrebbe affermare dei concetti pericolosi per tutti: per esempio flessibilità uguale mercato selvaggio. Sarebbe un errore gravissimo. Alla fine ne uscirebbe danneggiata proprio la flessibilità. Per funzionare bene un mercato come il nostro ha bisogno di regole. E le abbiamo. Si tratta solo di applicarle correttamente senza rimetterle in discussione di continuo». Flessibilità e regole. Non le sembra una contraddizione ? «Al contrario: il lavoro richiede la certezza delle regole. Questa volontà continua di cambiamento, non fa bene a nessuno. Lo sforzo da fare è conoscere fino in fondo l’impianto regolatorio esistente. Non può esserci chi scrive una legge pensando di farla funzionare in un certo modo e poi i giudici la interpretano in modo opposto. So bene che la nostra società si regge sull’equilibrio dei poteri, ma così si verifica uno scollamento che determina l’impossibilità di operare. Serve stabilità, certezza delle norme e la sicurezza che vengano applicate». E non sta accadendo? «Visto che dobbiamo in qualche modo uscire della crisi rischiamo di tornare a privilegiare il lavoro nero, le cooperative fasulle, i falsi appalti, le somministrazioni irregolari, il lavoro autonomo che tale non è. Quando si utilizzano gli strumenti non secondo la loro natura ma piegandoli alle necessità del momento si finisce per delegittimarli. Mentre andrebbero delegittimati i soggetti che li usano in modo sbagliato. È questo il paradosso con cui dobbiamo confrontarci». E come si può non cadere in questa trappola? «In un sistema come il nostro è particolarmente importante il ruolo degli intermediari privati, le agenzie per il lavoro e le società di servizi. Senza intermediari non esiste mercato. Con la crisi è emerso il ruolo di forte corresponsabilità pubblica delle agenzie per il lavoro al servizio del mercato. Che è un’infrastruttura pubblica». Pubblico... Privato... Non si rischia di fare confusione fra le due dimensioni? «Non credo. Il lavoro è un’infrastruttura complessa e di interesse pubblico, che esige una guida pubblica. Ciò non toglie che all’interno di questa infrastruttura ci possano essere soggetti privati che, svolgendo al meglio il loro ruolo, contribuiscono al funzionamento di tutto il sistema». Ci fa un esempio concreto di questa collaborazione fra soggetti pubblici e società private? «Il bonus per il ricollocamento introdotto dalla Finanziaria premia l’attività dell'intermediario capace di ricollocare un disoccupato. I soldi pubblici vanno a quanti riescono a reinserire stabilmente in azienda chi ha perso il lavoro. Non vengono più finanziati soggetti che svolgono attività fine a sé stesse. La logica del bonus supera l'approccio assistenzialista e dà la possibilità ai soggetti privati più efficienti di generare un’infrastruttura che prima non c’era. Se devo costruire competenze nella rete delle mie filiali per fare in modo che il nostro personale impari a supportare la ricollocazione dei disoccupati, oggi ho nel bonus della Finanziaria, un’occasione unica. E non si tratta di un finanziamento a fondo perduto: il pagamento di denaro pubblico avviene a fronte di un servizio erogato: la ricollocazione dei disoccupati». Dunque basta finanziamenti a pioggia? «Quell’epoca sta per finire. I miliardi dei fondi europei gestiti dalle Regioni ed erogati a titolo di sussidio per sostenere l’offerta di formazione saranno presto un ricordo sbiadito. Semmai c’è da rammaricarsi che a fronte di trasferimenti enormi avvenuti nell’ultimo trentennio i beneficiari non siano riusciti a costruire competenze utili al mercato. Non è un caso se oggi ci troviamo con un gap spaventoso da colmare fra offerta formativa e necessità reali dei beneficiari. Concordo in pieno col ministro Sacconi quando si pone l’esigenza di conoscere prima di tutto le esigenze del mercato, delle imprese». Ci sono casi virtuosi che andrebbero seguiti? «Si, per esempio il sistema delle doti della Regione Lombardia: non si finanzia più un corso o una certa società che lo eroga, perché la dote è in capo al lavoratore in cerca di una nuova occupazione. E lui che decide come spendere il bonus, girandolo a chi lo aiuta concretamente a uscire dalla condizione di disoccupato. Il sistema è solo in fase iniziale anche perché i primi a non sapere che esiste sono i disoccupati. Ma uno dei primi risultati è stato quello di ridurre in maniera drastica il numero delle società di formazione accreditate in Lombardia. È finita la festa». Cosa pensa invece degli ammortizzatori sociali? «Lo Stato ha investito miliardi per sostenere le persone espulse dalle aziende. Il sistema solamente passivo che si regge sulla cassa integrazione, ha garantito la sopravvivenza a milioni di italiani. Detto questo non possiamo pensare di andare avanti in questo modo: un sistema di ammortizzatori solamente passivi è insostenibile per le casse dello Stato, ma lo è anche per la cultura di un Paese e di un popolo. La sfida è un'altra: come tornare a produrre. Ma il salto da fare è notevole. Quando una persona perde il lavoro l’obiettivo deve essere trovargliene uno nuovo, non individuare le risorse per mantenere i disoccupati. Poi è chiaro che non si può abbandonare quanti si trovano senza un’occupazione. Ma bisogna aiutarli ad attraversare il deserto. Non servono sussidi che li educhino a restare fuori dal mercato. Trovo particolarmente efficaci le scelte di molte Regioni per sostenere chi aiuta i disoccupati a trovare un nuovo lavoro». Dunque stiamo andando nella direzione giusta? «Sì, ma dovrebbe essere fatto qualcosa per aumentare il livello di obbligatorietà per le aziende che licenziano di investire parte delle risorse su soggetti che supportano le persone licenziate nella ricerca di un nuovo lavoro. La componentei più in difficoltà in questo percorso potrebbero sembrare le aziende. Ma non è così: finora è stato il sindacato a frenare. Certo, le cose stanno cambiando, ricordo bene cos’ha detto proprio su queste pagine di Libero il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni. Il sindacato deve capire che l’obiettivo importante è uno solo: trovare un nuovo lavoro a chi l’ha perso mentre finora l’outplacement lo hanno fatto solo aziende multinazionali che avevano politiche predefinite nel Paese d'origine». E come superare questo blocco? «Noi di Gi Group stiamo lavorando proprio a una proposta da sottoporre al governo. È presto per parlarne, ma la renderemo pubblica entro breve tempo» Ci fa l’esempio di un contratto che non è stato capito dal mercato? «Lo staff leasing. Uno strumento geniale e di grande efficacia perché mette assieme l’esigenza di flessibilità delle imprese e quella di sicurezza dei lavoratori. In questo momento nel nostro Paese i contratti a termine pesano per il 13-14% del totale, mentre per le aziende dovrebbero essere almeno il 25%. Ma così si introdurrebbe un grado di incertezza inaccettabile per milioni di persone. Lo staff leasing può conciliare le due esigenze contrapposte. Da un lato l’agenzia per il lavoro si prende in carico con un contratto a tempo indeterminato il collaboratore, dall’altro l’azienda può acquisire prestazioni lavorative con un contratto a termine e con la massima flessibilità. Sta all’agenzia far crescere nel medio-lungo termine le persone che ha in carico con contratti di staff leasing. Assicurando loro una crescita professionale, retributiva e di carriera. Preoccupandosi di trovare nuovi contratti per utilizzare fino in fondo la potenzialità lavorativa di questi dipendenti. Ecco, questi sono i veri ammortizzatori sociali attivi». Ma chi paga? «Le imprese devono essere disposte a pagare un costo orario un po’ superiore perché non hanno rischi di alcun tipo. È una forma avanzata di outsourcing, di esternalizzazione del personale». Un'ultima domanda: cosa pensa dei cambiamenti in atto nel settore del pubblico impiego? Recupero di efficienza, tutti in pensione a 65 anni... «Siamo solo all'inizio. Esiste tuttora un gran numero di posti di lavoro improduttivi che rappresentano un carico insostenibile per il Paese. Non possiamo più permetterci un apparato pubblico così costoso. Per mantenerlo il prelievo fiscale sulle buste paga comprime i salari all’inverosimile. Il ceto medio ha difficoltà crescenti a garantirsi guadagni che permettano un tenore di vita dignitoso. Operai, impiegati, si tratta di milioni di persone. Non è più un fenomeno confinato a pochi. La crisi mondiale ha provocato un rallentamento generalizzato dei prezzi. Ma quando l'economia ripartirà il problema dei bassi redditi è destinato a esplodere in tutta la sua gravità».