Serve un welfare alla scandinava
Un diritto del lavoro più essenziale e realmente universale. E una contrattazione collettiva sempre più differenziata, spostata sui luoghi di lavoro e capace di recepire le esigenze concrete di imprenditori e dipendenti. È lo scenario prospettato da Pietro Ichino in questa intervista a Libero, nella quale il giuslavorista e senatore Pd illustra anche la sua proposta per superare le rigidità dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Le imprese potranno licenziare per motivi economici, ma in cambio dovranno garantire un trattamento di disoccupazione a livelli “scandinavi” (il 90% dell'ultima retribuzione nei primi dodici mesi): un onere che stimolerà le aziende a investire nei servizi di formazione e ricollocamento professionale. Senatore Ichino, parlando di lavoro e relazioni industriali, in questi anni sembrano emergere due esigenze opposte. Da un lato, si avverte la necessità di assicurare una base comune di diritti a tutti i lavoratori (anche quelli attualmente meno tutelati: partite Iva, collaboratori a progetto, ecc.). Dall'altro lato, si punta sulla contrattazione differenziata, di secondo livello, per meglio recepire le esigenze particolari di lavoratori e aziende. Ma non si tratta di due spinte contraddittorie? «Non direi. Anzi, mi sembra che i due obiettivi si coniughino bene tra loro. Da un lato l’obiettivo di un diritto del lavoro semplice, essenziale, facilmente leggibile, traducibile in inglese (per gli investitori stranieri), e veramente universale, cioè applicabile a tutti coloro che lavorano in posizione di dipendenza economica dall’azienda o dal committente. Dall’altro l’obiettivo di spostare il baricentro della disciplina contrattuale collettiva verso i luoghi di lavoro, per adattarla meglio alle esigenze aziendali specifiche e dare maggior spazio all’innovazione». Probabilmente gli Stati dell’Unione europea dovranno in futuro coordinare non solo le loro politiche di bilancio ma anche quelle sociali. Se si accetta l’idea di una base di diritti comune è ipotizzabile che un giorno si arrivi a un contratto collettivo non più nazionale ma europeo? «A me sembra più probabile che si assista a un decentramento della contrattazione collettiva; e che ci si avvii invece verso una armonizzazione al livello europeo della legislazione sul lavoro. Si muove in questa direzione il mio “Progetto semplificazione”, da cui è nato il disegno di legge n. 1873 del 2009, che ho presentato al Senato con altri 54 senatori. È la dimostrazione che è tecnicamente possibile ridurre le centinaia di leggi vigenti in materia di lavoro a un Codice del lavoro di soli 75 articoli, molto aderente agli standard comunitari». Ricordando in Senato il quarantesimo anniversario dello Statuto dei Lavoratori, lei ne ha parlato come di uno spartiacque tra una politica del lavoro rispettosa del principio contrattualistico e di sussidiarietà, e una legislazione che di lì in poi si sarebbe fatta “invasiva, intrusiva e ipertrofica”. Vuol dire che battersi oggi per la riforma dello Statuto significa in fondo ritornare allo spirito che lo originò, e che poi è stato tradito? «Non ne sono così convinto. L’emanazione dello Statuto, nel 1970, coincise con una svolta decisamente sfavorevole alla corrente di pensiero che va sotto il nome di “contrattualismo sindacale”, cui si ispirava soprattutto la Cisl: prevalse la linea dell’intervento legislativo forte, anzi fortissimo, voluto da Pietro Nenni e dal ministro socialista Giacomo Brodolini. L’ipertrofia attuale della legislazione nasce, almeno in parte, da quella svolta. Ed è anche questa ipertrofia una delle cause dell’ineffettività del nostro diritto del lavoro. Oggi esso è applicato, nella sua interezza, soltanto in metà dei rapporti di lavoro dipendente». Perché la linea “contrattualistica” della Cisl fu sconfitta? «Una spiegazione possibile è questa: negli anni ’60, gli anni dei primi governi di centro-sinistra, i partiti maggiori avevano progressivamente posto in essere una sorta di lottizzazione delle competenze legislative, per la quale economia, finanza e industria erano poste sotto il controllo sostanziale della Dc, mentre il lavoro era sotto il controllo sostanziale del Psi e del Pci (a quest’ultimo veniva attribuito quanto meno un potere di veto in proposito). In questo quadro, si può capire che anche una parte consistente della Cisl abbia ceduto alla tentazione di accettare una forte intrusione del potere legislativo nella materia del lavoro, sul presupposto che la legge potesse consolidare le conquiste ottenute sul piano contrattuale e il potere di veto della sinistra costituisse comunque una buona garanzia contro possibili ritorni al passato». Coniugare flessibilità e sicurezza, abolendo le rigidità del mercato del lavoro (anche con la revisione dell’articolo 18) e garantendo risorse e servizi, soprattutto formazione, a chi cerca un posto. È possibile, realisticamente, imboccare questa strada in tempo di crisi? «Non solo è possibile, ma è necessario farlo. Ed è proprio in un periodo di crisi grave che è politicamente più facile farlo. Perché non si tratta di ridurre le protezioni per chi un posto di lavoro stabile lo ha già, ma di riscrivere il diritto del lavoro per l’Italia del dopo-crisi, per i rapporti di lavoro che si costituiranno da qui in avanti. Si costituiranno in un contesto di incertezza sul futuro molto maggiore rispetto al contesto precedente alla crisi: per questo occorre un nuovo diritto del lavoro capace di coniugare il massimo di flessibilità per le strutture produttive con il massimo di sicurezza per il lavoratore. Una sicurezza che non potrà più essere costruita sull’ingessatura delle strutture, ma sul sostegno del reddito e servizi efficienti al lavoratore nel mercato del lavoro». In che cosa consiste la sua proposta di "contratto unico"? «Il progetto che va sotto il nome di “contratto unico” è quello elaborato da Tito Boeri e Pietro Garibaldi, che si è tradotto nei disegni di legge Nerozzi al Senato e Bobba alla Camera. Lo considero un passo avanti nella direzione giusta, e per questo lo ho firmato anch’io; ma il mio progetto di riforma è in larga parte diverso, molto più organico e ambizioso». Il contratto unico però è stato criticato anche dalla Cisl, un sindacato che non ha posizioni pregiudiziali… «Quelle critiche erano rivolte, appunto, al progetto Boeri-Garibaldi, non al mio, che è guardato invece con grande interesse dalla Cisl: mi riferisco per esempio a quello che ne ha detto e scritto in proposito il numero due della confederazione, Giorgio Santini. E il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, ha dichiarato che è il progetto migliore oggi sul tavolo». Ma allora come risponde a chi le obietta che con il suo progetto si abolirebbe di fatto l'articolo 18 senza avere, in cambio, un moderno sistema di ammortizzatori sociali? «Rispondo che non è così: nel mio progetto si consente all’impresa di procedere liberamente all’aggiustamento industriale, cioè alla riduzione o sostituzione di personale, a condizione che essa si faccia carico della sicurezza dei lavoratori licenziati nel passaggio alla nuova occupazione». Come? «Con un trattamento complementare di disoccupazione, che dia al lavoratore licenziato una garanzia di continuità del reddito di livello scandinavo: 90% il primo anno, 80% il secondo, 70% il terzo». Non è troppo caro per l’impresa? «No, perché per il primo anno l’Inps paga già l’80%: il costo per l’impresa si riduce così al 10%. E si può ragionevolmente prevedere che in tempi normali nove lavoratori su dieci, se adeguatamente assistiti e seguiti dall’Agenzia cui l’azienda affida questa funzione, si ricollochino entro il primo anno. Il rischio che la disoccupazione si protragga oltre i dodici mesi avrà l’effetto positivo di incentivare l’azienda a investire molto su buoni servizi di outplacement e di riqualificazione professionale mirata del lavoratore. In ogni caso, questi costi sono nettamente inferiori rispetto al costo del sistematico ritardo nell’aggiustamento industriale che oggi viene imposto alle nostre imprese». Come giudica l'idea, appoggiata dal senatore Treu, di parificare i costi dei contratti a tempo indeterminato con quelli dei contratti a tempo determinato, in modo da indurre le aziende a ricorrere a questi ultimi solo quando sono realmente necessari e non per risparmiare? «E’ una buona idea, che è già contenuta nel mio disegno di legge n. 1873: per i dettagli rinvio al testo e al mio sito:www.pietroichino.it». Lei ha detto che un partito fondato sul lavoro non può fare riferimento soltanto a una parte del mondo sindacale (la Cgil) ma a tutto il sindacato e anche al mondo dell’imprenditoria. In questo senso, secondo lei, l’attore principale rimarrà Confindustria? O si apre uno spazio reale anche per commercianti e artigiani, riuniti nella nuova Rete imprese Italia? «Certo che anche la nuova Rete può assumere un peso di grande rilievo. Anche perché un terzo dei lavoratori del settore privato dipende da imprese di dimensioni inferiori ai 16 dipendenti». Un nuovo modello di relazioni sociali passa anche attraverso la partecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa e la rappresentanza negli organi decisionali? «Ci sono molti possibili modelli di partecipazione dei lavoratori nelle imprese. Non credo che uno di questi possa aspirare a diventare il modello predominante. Mi parrebbe invece opportuno che si favorisse un confronto aperto e una competizione tra questi modelli, in modo che imprenditori e lavoratori possano scegliere, attraverso la contrattazione aziendale, se e quale sperimentare. A questo tende il testo unificato dei disegni di legge su questa materia, che ho elaborato per incarico della Commissione lavoro del Senato e che mi sembra raccolga un consenso bi-partisan».Se