Si possono risparmiare miliardi ogni anno
«Se anche solo il 20 per cento dei lavoratori attualmente in cassa integrazione potessero utilizzare lo strumento dell’outplacement la collettività risparmierebbe un miliardo di euro». La stima è di Gabriella Lusvarghi, amministratore delegato di Dbm Italia e in passato presidente dell’Aiso, l’Associazione italiana società di outplacement. L’outplacement (comunemente conosciuto anche come continuità professionale) significa, in altre parole, riqualificazione e ricollocamento del personale in esubero. Facile intuire che, in tempi di crisi e di licenziamenti, le società che offrono questi servizi aumentino sensibilmente il giro d’affari. In Italia quali aziende ricorrono maggiormente al servizio di continuità professionale? «Le multinazionali e le grandi aziende italiane. Ma negli ultimi anni anche le aziende di medie dimensioni». Quali sono le categorie di lavoratori più interessate? «Nel 2009 i più penalizzati dalla crisi sono stati i dirigenti e gli operai, ma per questi ultimi ha agito, con effetto calmieratore, la cassa integrazione guadagni. Per darle un’idea noi attualmente lavoriamo con 500 dirigenti, 500 quadri, un migliaio d’impiegati, un migliaio di operai e un altro migliaio di persone provenienti da bandi pubblici». Chi è più difficile da ricollocare? «I lavoratori con competenze scarse. Quelli che hanno un titolo di studio molto basso, quelli che si occupano di attività che ormai stanno scomparendo: operai generici e soprattutto operaie generiche, operai che non conoscono l’inglese, che non sanno usare il computer... ». A un giovane in queste condizioni si potrebbe consigliare studio e formazione. Ma un cinquantenne che si iconoscesse in queste caratteristiche e perdesse il lavoro dovrebbe disperare? «Intervenire è ancora possibile, ma servono percorsi di riqualificazione seri. Per intenderci, non basta un corso di 40 ore per insegnare l’inglese a chi è privo anche delle basi elementari. Però ripeto: non dispererei. Cisono aziendeche sono interessate anche a questi profili, anche se naturalmente offrono formule contrattuali più flessibili». Ci spiega concretamente come si sviluppa un percorso di continuità professionale? «Premesso che esistono percorsi collettivi e individuali, possiamo dire che ordinariamente all’inizio c’è un colloquio, che serve a conoscersi. Dopo il colloquio, se si decide di procedere, viene declinato, sulla base della qualifica professionale, un percorso personalizzato, e si traccia un primo bilancio delle competenze». Vale a dire? «Che cosa so, che cosa so fare, come lo faccio. Bisogna evidenziare i punti di forza e le aree di miglioramento. Quindi, e questo è l’intervento formativo vero e proprio, si procede a colmare i gap tra le qualità del lavoratore e le qualità richieste dal mercato. Si definisce anche un obiettivo professionale. Per esempio, se un manager vuole diventare un libero professionista o un microimprenditore gli si offre consulenza sul business plan, sugli aspetti finanziari e societari». E per i dipendenti che cercano un’altra azienda? «Li si aiuta a scrivere un curriculum e a preparare un colloquio di lavoro (solitamente la cosa più difficile è vendere sé stessi). Quindi si monitorano con attenzione le aziende del territorio, percorrendo i canali tradizionali ma anche le vie nascoste». Le vie nascoste? «Solo il 25 per cento delle offerte di lavoro vengono coperte attraverso canali noti: gli annunci sui giornali o su Internet. Il restante nasce dal passaparola. Noi abbiamo un filo diretto continuo con le aziende». A questo punto, se tutto va bene, il disoccupato trova un nuovo lavoro. Quanto tempo è passato dall’inizio del percorso? «Mediamente, stando alla nostra esperienza, quattro mesi e mezzo per un operaio e sei mesi per un dirigente. Parlo dei dati 2009». Un 2009 che, per le società che si occupano di riqualificazione, deve essere stato un anno d’oro… «Sicuramente c’è stata una grossa crescita della domanda di questi strumenti. Ma restiamo insoddisfatti, perché in Italia la riqualificazione professionale rimane un settore di nicchia. Eppure se la politica ne incentivasse il ricorso a guadagnarci sarebbe la collettività». Come fa a dirlo? «Tra 2009 e 2010 sono stati stanziati 32 miliardi di euro per supportare il mondo del lavoro, tra cassa ntegrazione, mobilità e altri ammortizzatori sociali. Con questi strumenti, il ricollocamento avviene in media dopo 24 mesi. Ora, se il 20 per cento dei lavoratori in cassa integrazione potessero accedere ai servizi di continuità professionale, i tempi del loro reinserimento si ridurrebbero da due anni a sei mesi, con conseguente risparmio di 1 miliardo di euro circa. Non poco». Perché un’impresa dovrebbe investire per ricollocare un dipendente in uscita? «Per un impresa è più conveniente investire nel ricollocamento piuttosto che tenere le persone per due anni in cassa integrazione. Inoltre anche il sistema, dal punto di vista della produttività complessiva, ne gioverebbe».