La storia

Angelo Mancia, ecco cosa insegnano ancora oggi quei delitti impuniti

Francesco Storace

Sì, Angelo Mancia è presente e non è un reato. Quel ragazzo generoso e coraggioso che a 27 anni fu ammazzato sotto casa sua – era il 12 marzo 1980 – era un gagliardo militante del Msi. Neanche per lui c’è stata giustizia. Ma la sua comunità non smette di ricordarne l’esempio e lo ha fatto ancora ieri pomeriggio presso la sede del Centro Iniziative Sociali e del periodico Realtà Nuova, sotto la spinta del senatore Domenico Gramazio. Con lui un’altra figura storica di quegli anni, come Tommaso Luzzi, l’avvocato Giuseppe Valentino, presidente della fondazione Alleanza nazionale, e chi scrive.

Un omaggio dovuto alla memoria di chi visse gli anni in cui “uccidere un fascista non è reato”, slogan tragicamente confermato dall’inesistenza di colpevoli giudiziari, se non addirittura di indagini approfondite. Eva ricordato quel che successe qualche settimana prima dell’assassinio di Angelo Mancia, nelle stesse zone: c’era stato l’assassinio - terribile, davanti ai suoi genitori atterriti - di Valerio Verbano, attivista dell’estrema sinistra. Col delitto Mancia si gridò alla vendetta, mai provata e neanche per Verbano ci furono colpevoli... Ma certo c’era un clima orribile, e per questo oggi c’è chi manifesta giusta preoccupazione, come ha fatto ieri il presidente del Senato Ignazio La Russa, ricordando in un’intervista a Il Giornale, un altro giovane missino assassinato a Milano, Sergio Ramelli. Occhio a quello che succede nelle università, gli annidi piombo non furono certo uno scherzo.

Anche la figura di Angelo Mancia appartiene a quella galleria di martiri della destra italiana, in cui ricoprì incarichi di base, con una passione che tutti gli riconoscevano. Si fece apprezzare anche come segretario di una delle più note sezioni del Msi, quella del quartiere Talenti. E quella sezione fu chiusa per disposizione delle autorità giudiziarie, perché all’interno venne trovata una tanica che, a detta degli inquirenti, doveva aver contenuto benzina per fare attentati. «Peccato però che, a seguito di successive analisi i cui risultati vennero rivelati solo dopo tre anni, risultò aver contenuto esclusivamente colla per manifesti», come rivelò il suo amico Massimo Boni. Mancia fu dipendente del Secolo d’Italia. E proprio alla sede del giornale del Msi si stava per recare quella mattina, quando i terroristi lo colpirono a morte. Basti pensare che si appostarono sotto la sua abitazione, all’interno di un piccolo pullman che avevano parcheggiato nei pressi. Il giorno prima altri “compagni” avevano ucciso un giovane, un cuoco, solo perché scambiato per il segretario della sezione Flaminio del Msi. Dopo l’assassinio di Mancia, arrivò puntuale la rivendicazione. La fecero a Repubblica, con una telefonata: «Qui compagni organizzati in Volante Rossa abbiamo ucciso noi il boia Mancia. Siamo scesi da un pulmino posteggiato lì davanti». I killer erano in due, armati di pistole calibro 7,65, con indosso camici bianchi, come quelli degli infermieri. Restarono nascosti dentro l’automezzo fino al mattino, senza perdere di vista il portone di casa Mancia. E appena si profilò quel gigante buono che usciva di casa, spararono. E lo finirono con l’ultima revolverata, alla nuca. Era l’odio di quegli anni.

Se questi esempi sono ricordati ancora oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, è perché quella storia politica fu combattuta nel nome di ideali che non si volevano ammainare come logore bandiere. E ben 27 ragazzi missini, in varie città d’Italia – anche se fu la Capitale a pagare il tributo più grave – persero la vita a causa dello scontro tra opposte fazioni politiche. Pure a sinistra ci furono giovani morti, anche se non solo per mano “nemica” ma spesso in “battaglie” con la polizia: però tutti pagarono nella maniera più dolorosa possibile ed è il motivo per cui non vorremmo mai più vedere quel sangue sulle strade.