Classe 1919

Giuseppe Bassi, il centenario reduce di Russia: "Come sono sopravvissuto 4 anni nei gulag"

Era partito volontario per la guerra in Russia convinto di tornare vincitore, ma è stato fatto prigioniero e ha trascorso quattro anni infernali- freddo, fame, lavoro, violenze, morti - nei gulag russi. Giuseppe Bassi, soprannominato Bassilora («Avevo nascosto l’orologio nella scarpa durante le perquisizioni e non se ne sono accorti: l’ho tenuto con me e tutti mi chiedevano quanto mancasse ai pasti: “Bassi, l’ora?”») è miracolosamente sopravvissuto e adesso, a 106 anni, racconta l’incubo, gli interminabili mesi, le tragedie. Sguardo attento e memoria prodigiosa (ricorda perfettamente date, nomi e cognomi), Bassi passa le giornate leggendo i quotidiani e guardando partite di calcio («Non me ne perdo una né del Padova né della Juventus, le mie squadre del cuore»).

Signor Bassi, che belli quegli orologi lì nella teca. 
«Li colleziono io, sono quasi tutti a cipolla».
Quanti ne possiede? 
«Una quarantina, li ho trovati un po’ ovunque. Ho un rapporto speciale con gli orologi: non per niente il mio soprannome è Bassilora».
Che significa? 
«Quando ci hanno fatti prigionieri in Russia, durante le perquisizioni ho nascosto l’orologio in una scarpa e sono riuscito a conservarlo. Ero l’unico ad averne uno e i miei compagni in attesa dei pasti mi dicevano: “Bassi, l’ora?”».
Poi approfondiamo. Ora restiamo al presente: a proposito di cibo, cosa mangia? 
«Di tutto. Anche carne, ma meglio se tritata».
Vino? 
«Un bicchiere sì. L’acqua invece non la tocco».
In che senso? 
«Non la bevo più da quando sono tornato dalla prigionia, se non pochi sorsi per prendere le medicine. Ho avuto il rigetto per aver mangiato neve tutti i giorni per quattro anni».
La sua giornata tipo? 
«Leggo molto, soprattutto i quotidiani: i miei giornalisti preferiti sono sempre stati Montanelli e Feltri. La tv la guardo per le partite di calcio».
È tifoso? 
«Non mi perdo le gare del Padova, club al quale sono stato abbonato 60 anni, e della Juve, le mie squadre del cuore».
Quindi Del Piero, che ha giocato in entrambe, è stato suo idolo. 
«Naturale. Qui lo chiamavano “il bocia”: era giovane, entrava e segnava».
Altri protagonisti biancorossi cui è rimasto legato? 
«Nereo Rocco, che ho anche conosciuto: persona eccellente e grande intenditore».
Bassi, la domanda classica che si rivolge a un centenario è: quale è il segreto? 
«Nel mio caso vivere tranquillamente, senza stressarsi. Anche se da giovane non è stato così facile...».
Appunto. Torniamo indietro nel tempo. Al piccolo Giuseppe detto Beppe. 
«Nasco il 3 febbraio 1919 qui a Villanova di Camposampiero. Papà Carlo gestisce un’azienda agricola con i suoi due fratelli, mamma Angela è casalinga».
Figlio unico? 
«Due sorelle più grandi».
È un bambino timido? 
«No, vivace. Non sto mai fermo e ho la passione per la bicicletta: da ragazzo ne compro una da corsa con la quale vado in montagna a rifare le tappe del Giro d’Italia, perché sono grande tifoso di ciclismo».
Coppi o Bartali? 
«Ovviamente Bartali».
Scuole? 
«Elementari in paese e medie in collegio a Padova. Poi mi diplomo geometra e inizio a esercitare».
Sono gli anni del fascismo. 
«Faccio tutta la trafila, pur non essendo fanatico. Però, come tutti i miei coetanei, seguo con interesse le imprese degli italiani in Africa nella guerra d’Etiopia, leggo i giornali e ascolto Mussolini alla radio, anche se sono critico nei confronti del regime». 
E viene chiamato al fronte. 
«No. Frequento a Lucca la Scuola Allievi Ufficiali di Complemento di Artiglieria, terminata la quale verrò assegnato alla caserma “Piave” di Padova dove si sta allestendo il 120° Reggimento: saputo che la destinazione sarà al fronte russo mi arruolo volontariamente».
Perché? 
«È normale per noi giovani, il clima è di entusiasmo collettivo e mi sentirei inferiore se non partecipassi al conflitto».
Non ha paura? 
«Per niente, anzi. Inizia una grande avventura e sono convinto, come tutti, che assieme alla Germania sbaraglieremo il nemico e torneremo vincitori».
Il 9 febbraio 1942 partite da Padova per la campagna di Russia. Ci porti idealmente con lei. 
«Viaggiamo in treno, fa freddo e di notte si arriva a -20».
Dopo un lunghissimo tragitto ecco il fronte. 
«Il mio reggimento occupa un bunker sopraelevato, a un centinaio di metri dalle linee nemiche. Io devo trasmettere gli ordini dal comando all’artiglieria, dicendo in quali direzioni sparare e contro quali obiettivi. Viviamo e dormiamo lì, uscendo solo per fumare. E nel silenzio riusciamo a sentire i discorsi dei soldati russi».
Poi? 
«A maggio i tedeschi iniziano le operazioni belliche per avanzare, partiamo con i camion e occupiamo la città di Stalino (oggi Donec’k). E poi continuiamo a penetrare nelle linee russe per tutta l’estate, occupando nuovi territori».
Riesce a comunicare con casa? 
«Ci scriviamo lettere. Ma a novembre ho una licenzia premio e torno a Padova per un mese. Sarà fondamentale perché mangio, riprendo le forze e riparto in ottima forma».
Il 9 dicembre è di nuovo al fronte, ma dopo una settimana succede il caos. 
«Arriva la controffensiva che travolge i tedeschi nei loro posti di combattimento, in quel momento sono al tavolo di tiro per dare ordini alle batterie».
E inizia la ritirata. 
«Ricordo benissimo l’ordine, ma nessun in quel momento pensa sia un disastro. Invece rimaniamo senza benzina, carri armati, munizioni. Scappiamo a piedi, ma una volta arrivati ad Arbuzovka, il 24 dicembre, capiamo di essere circondati senza più scampo. Non resta che arrendersi».
Lei che fa? 
«Come prima cosa seppellisco la pistola sotto la neve per non consegnarla: l’avevo presta durante un combattimento e avevo comprato le pallottole durante la licenza in Italia».
Poi? 
«Ci perquisiscono per toglierci tutti gli oggetti e mi viene l’istinto di nascondere l’orologio in una scarpa. Non se ne accorgono e mi resterà per tutta la prigionia. Guardi, è questo qui incorniciato».
Bellissimo, è un prezioso cimelio. Torniamo alla prigionia. 
«I russi ci dividono in gruppi di quattro e formiamo lunghe colonne dirette verso l’ignoto: nessuno sa dove stiamo andando. Di giorno si cammina nel freddo, di notte si trova riparo nei capannoni dei mezzi agricoli. Io resto sempre in testa alla colonna perché in fondo ci sono due soldati addetti alla sorveglianza che non ci pensano due volte a sparare: chi non riesce più a camminare e si siede per terra vene fucilato».
Cibo? 
«Mangiamo la neve, che serve anche a dissetarci e, quando capita, scarti di verdure che troviamo per strada».
Lei rischia mai la vita? 
«Durante la marcia una sentinella si accorge che il mio cappotto è da ufficiale: “Du offizier, offizier kaputt!”. Mi afferra per il braccio e mi trascina fuori dalla colonna per uccidermi, ma lo sguardo gli cade sull’anello che porto al dito. È la salvezza: me lo strappa e si allontana soddisfatto, dimenticandosi del "kaputt"».
Dopo 18 giorni - gli ultimi 8 in treno - arrivate al primo gulag. Quello di Tambov. 
«Grandi baracche di legno, siamo pieni di pidocchi e ci grattiamo ovunque. Per fortuna ci fanno fare un bagno caldo e ci danno una scodella di zuppa. Dopo 11 giorni, a sorpresa, ci caricano su un altro treno che ci conduce, in 5 giorni, al gulag di Oranki: è il 26 gennaio 1943».
Impatto? 
«Devastante. Ci inquadrano e alcuni di noi cadono a causa della lunga immobilità in treno. Sembriamo mendicanti, con la barba lunga, la faccia smunta e annerita dal fumo e il cappotto in disordine, tutti con in mano un barattolo. Le costruzioni, però, questa volta sono in muratura e almeno questo ci dà forza».
Il 26 novembre altro trasferimento. 
«In dieci mesi sono morti circa 700 ufficiali italiani, siamo sopravvissuti solo in 270. Quattro giorni di viaggio e ci ritroviamo al lager 160 di Suzdal, ricavato in ex monastero. Le condizioni sono migliori: letti a castello e camere con la stufa».
Dei gulag nei quali è stato non esistono foto. Grazie ai suoi disegni, però, è stato possibile rinvenire le fosse comuni. 
«Quando sono lì, di nascosto, sfrutto le mie competenze da geometria e faccio schizzi sulla cartina delle sigarette riproducendo l’interno del campo. Poi ne preparo delle copie e le tengo nascoste».
Bassi, si è mai ammalato in tutto quel periodo? 
«Mai, sarei morto».
Qualcuno racconta di episodi di cannibalismo. 
«Vero, nel campo di Crinovaia. Mi hanno riferito di cadaveri aperti senza più gli organi, sottratti per essere cotti e mangiati. La fame sconvolge la mente degli uomini».
L’incubo finisce nell’aprile del 1946: tornate a casa. 
«Partiamo in camion e, dopo 20 venti giorni e una sosta in un altro lager, arriviamo a Odessa, dove ci fanno rimettere in forma. Poi altre tappe, altri stop e finalmente il 7 luglio arriviamo in Italia».
Chi la accoglie in stazione a Padova? Perché ride? 
«C’è mia sorella, ma non mi trova. Perché io, preso dall’entusiasmo del ritorno, proseguo direttamente per Roma con i miei compagni di prigionia».
Il ritorno alla vita normale come è? 
«Faccio il geometra e sono single, ma un giorno mi presentano Natalina, molto più giovane di me: io ho 43 anni, lei 23».
Colpo di fulmine. 
«Stiamo bene insieme malgrado la differenza d’età, ci sposiamo e viaggiamo per sei anni: nel 1971 poi nasce Alberta e nel 1975 Carlo. Natalina è morta nel 2000, a 61 anni».
Ultime domande veloci. 1) Rapporto con la religione? 
«Ottimo. La fede mi ha salvato tante volte».
2) Paura della morte? 
«Assolutamente no».
3) Tra pochi giorni compie 106 anni. Che regalo le piacerebbe ricevere? 
«Mi basta l’affetto dei figli e dei nipotini: non potrei chiedere niente di meglio».
4) Cosa pensa dei giovani? 
«Sono un po’ sbandati».
Ultimissima: Bassi, l’ora? 
«La devo deludere: ormai non porto più l’orologio».