Subalternità culturale
Mestre, prima gli stranieri: a scuola i bambini studiano il bengalese
Il finale del film è già prevedibile. Il milieu progressista, lesto nell’alzare il ditino sulla scelta del ministro Valditara di inserire lo studio facoltativo del latino alle medie, sospirerà di speranza su quella scuola elementare di Mestre che ha deciso di attivare un corso di bengalese. E certo, si dirà: mentre il primo è lingua considerata come luogo comune morta, il secondo è ben vivo, e viene parlato da migliaia di migranti del Bangladesh.
Obiezione prima: il latino è lingua vivissima come palestra mentale, etimologica, utile ad allenare al ragionamento e a “respirare” le nostre città dove si palesa in ogni dove un monumento con incisa una scritta, per non parlare delle chiese. Obiezione due: se non dev’essere l’italiano la lingua comune anche delle seconde generazioni, come si costruisce l’integrazione? Spieghiamo, nello specifico, quanto sta accadendo, raccontato in un articolo del Gazzettino di ieri. La scuola primaria Cesare Battisti ha un alto numero di alunni di origini bengalesi, che sono la maggioranza. Dunque, per non far perdere il legame con le proprie origini, è stato attivato un corso per coloro che frequentano le quinte classi.
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Un’iniziativa che alla scuola non costa niente, perché il progetto è del Consolato generale del Bangladesh a Milano e del Console onorario del Bangladesh a Venezia. Questi enti hanno fornito libri e messo a disposizione degli insegnanti qualificati. «Il ciclo - si legge nel pezzo del Gazzettino - si sviluppa in ventun lezioni al sabato mattina fino alla fine dell’anno scolastico e si articola su due livelli, uno per principianti e uno intermedio». La dirigente scolastica ha spiegato, alle colonne del giornale, che già sono stati attivati corsi di coreano con l’associazione culturale di Venezia e lezioni di lingua e cultura romena che interessano pure gli studenti di origine moldava. E che sono stati stretti gemellaggi con Germania e Francia.
Tornando allo studio del bengalese, l’obiettivo esplicito è quello di mantenere una dimensione multiculturale. Tutto viene svolto in piena volontarietà, certo, ma considerando la scala di priorità vien da pensare se sia più utile «non far perdere le radici» (cosa di cui ogni famiglia può occuparsi singolarmente in mille modi) o magari potenziare lo studio dell’italiano, visto che come dimostrano molti dati la comprensione dei testi e la capacità di scrittura è un tasto dolente specie per le generazioni più giovani. Siamo sicuri che un progetto come questo porti qualcosa di buono per contrastare la formazione di ghetti socio-culturali? Il pericolo è che, anzi, rischi proprio di incoraggiarli.
L’iniziativa è stata fortemente criticata anche dall’eurodeputata della Lega Anna Cisint, che ha parlato di «ennesimo errore di chi ritiene che l’assimilazione delle nuove generazioni di figli di immigrati passi dalla sottomissione della nostra cultura anziché dal suo studio e dalla sua conoscenza». E ha aggiunto: «È fondamentale che questi bambini imparino l’italiano, le nostre tradizioni e anche la lingua locale, patrimonio storico e indentitario fondamentale per un territorio come il Veneto e Venezia. Il problema per questi bambini non è mantenere la loro lingua, spesso l’unica parlata dai genitori, ma riuscire a integrarsi sin da subito in Italia e nella loro città comprendendo che lingua, storia e radici sono il primo passo per diventare cittadini italiani consapevoli».
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Al di là dello scontro manicheo tra pro e contro che si è scatenato sui social, c’è un taglio diverso che viene proposto nella pagina Facebook «Coordinamento Cittadini quartiere Piave». Gli insegnanti che saranno coinvolti nel progetto, scrive un’utente «che titolo di studio hanno riconosciuto in Italia?». Un’altra commentatrice della pagina osserva: «Se mettono piede degli insegnanti in una scuola statale vogliamo vedere le abilitazioni all’insegnamento che devono necessariamente essere rilasciate dallo stato italiano».