Due morti

Auto esplosa a Napoli, la perizia: batterie scoppiate a bordo, la vettura diventa una bomba

Simone Di Meo

La Volkswagen Polo che esplose sulla Tangenziale di Napoli il 23 giugno di due anni fa si era trasformata in un altoforno in una manciata di secondi: i gas, fuoriusciti dalle batterie al litio dell’auto a causa del surriscaldamento, raggiunsero in meno di cinque minuti i 1.000 gradi Celsius ustionando gravemente sia il conducente, la ricercatrice del Cnr Maria Vittoria Prati (66 anni), sia il passeggero, lo studente di ingegneria Fulvio Filace (25 anni). Entrambi morti pochi giorni dopo il ricovero in ospedale. È questa la conclusione a cui è giunto il consulente della Procura partenopea (fascicolo affidato al pm Manuela Persico) nell’ambito dell’indagine per omicidio colposo, in cui risultano coinvolte sei persone, che in primavera arriverà al giro di boa dell’udienza preliminare.

Il progetto scientifico, affidato all’università di Salerno e finanziato dall’Ue, prevedeva la trasformazione di una classica utilitaria in una vettura ibrida proprio grazie all’installazione dei sistemi di alimentazione green che hanno poi provocato la tragedia. Scrive l’ingegner Giuseppe Terzaghi nella sua relazione: «È scoppiata la batteria al litio utilizzata per la trazione del veicolo in modalità elettrica» e questa «ha incendiato a cascata tutti gli altri elementi». «Le batterie al litio purtroppo sono suscettibili al fenomeno del cosiddetto “scoppio”, più propriamente definito scientificamente come “Thermal runaway”: traducibile in italiano come “fuga termica”», è riportato nel documento.

 

 

Il vero «tallone di Achille» di questa tecnologia, aggiunge il consulente, che la «rende pericolosa se non gestita con particolari attenzioni e precauzioni». Le stesse attenzioni e precauzioni che sono evidentemente mancate nel momento in cui è stato deciso di provare su strada il prototipo, addirittura scegliendo un percorso altamente trafficato come la Tangenziale del capoluogo campano. L’esplosione, che solo per miracolo non ha coinvolto altre vetture in quel momento in transito, è stata «innescata dalla sovraccarica della batteria», a causa del «difettoso funzionamento del suo sistema di controllo e di sicurezza», acuito poi dalla «elevata temperatura ambiente» che ha agito come «acceleratore del fenomeno». Le analisi di Terzaghi hanno ricostruito le fasi dell'incidente e scandagliato anche le mancanze (tutte comunque ancora da vagliare in sede giudiziaria) della ditta produttrice della batteria che avrebbe omesso di segnalare la pericolosità dell’accumulatore.

Inizialmente, i due occupanti non si sono accorti di nulla. Quando una batteria al litio va in tilt, infatti, produce poco fumo e nessuna fiamma. Ma, illustra il consulente, nel giro di pochi attimi la fiammata dei gas pressurizzati ha incenerito tutto indirizzandosi, purtroppo, non verso l’esterno – come impone la normativa sulle auto elettriche – ma verso l’interno dell’abitacolo. In questo caso, le altissime temperature sono riuscite «a fondere anche la bombola in alluminio usata per il Pem», ovvero per l’alimentazione della «strumentazione di bordo». Ne è nata una reazione a catena che ha trasformato la Polo in un ordigno. La deflagrazione della batteria trazione, infatti, «ha prodotto l’esplosione secondaria anche della batteria del Pem», quindi «l’incendio delle tappezzerie e delle altri parti plastiche», infine la «combustione del gasolio contenuto nel serbatoio».

Tanto che, si legge nella relazione del tecnico scelto dal pubblico ministero, «il decorso molto rapido del fenomeno non ha lasciato scampo agli occupanti». I quali si son trovati, inoltre, a pagare con la vita pure un errore tecnico che, in casi del genere, risulta quasi sempre fatale. Scrive il consulente: «L’intero progetto era indebolito dalla incauta collocazione della stessa batteria (alle spalle del guidatore e del passeggero, ndr) [...] senza che parallelamente venissero adottate le rigorose precauzioni tecniche che tale rischiosa collocazione avrebbe dovuto raccomandare». Probabilmente, trattandosi di un esperimento su una macchina già allestita, sarebbe stato difficile trovare una sistemazione alternativa al pacco batterie, ma questo, secondo il giudizio del consulente, non cancella le sviste di progettazione e di sicurezza che sono state commesse sul prototipo. Sarà il giudice a decidere se esistono i presupposti per andare a giudizio e offrire la possibilità alle famiglie di Maria Vittoria Prati (assistita dall’avvocato Ivan Filippelli) e di Fulvio Filace di poter conoscere la verità.