Il reportage

Nel carcere di Turetta e Chico Forti a Verona: sbarre, musica e sigarette

Alessandro Dell'Orto

Sbam. Quando la pesante porta automatica in ferro numero 305 (sono tutte contrassegnate col pennarello) si chiude dietro dite e ti ritrovi nel lunghissimo corridoio di cancelli verdi e azzurri che conduce all’ingresso delle palazzine con le celle, capisci che stai entrando in un’altra dimensione. Il tempo si dilata (i telefoni cellulare sono vietati), i rumori si amplificano e rimbombano, le voci si mescolano, le chiavi tintinnano. Ancora non lo sai, ma sei in un mondo a parte, in una città che vive di vita propria con ritmi scanditi, regole precise, norme severe, drammi e difficoltà. Disagio. Ma anche un’umanità più diretta, più vera, e te ne accorgi subito dai primi incontri che fai con i detenuti lavoratori che, sorridendo, ti guardano negli occhi e ti salutano sempre, anche se è la prima volta che li incroci.

«Buongiorno», «Salve», «Ciao»: è una forma di educazione e rispetto, ma soprattutto la ricerca di rapporti personali, di qualcuno che si accorga di loro togliendogli l’angosciante dubbio di essere invisibili. Eccoci nel carcere Montorio di Verona, casa circondariale operativa dal 1995 e restata nell’ombra 30 anni, per poi diventare improvvisamente famosa. E - negli ultimi mesi - la più chiacchierata d’Italia. A metterla sotto gli scomodi riflettori è stato l’arrivo, a poco tempo di distanza tra loro, di tre dei protagonisti più raccontati, cliccati e commentati della cronaca nera: Benno Neumair (il 33enne di Bolzano che ha ucciso i genitori), Filippo Turetta (femminicidio di Giulia Cecchettin) e Chico Forti (l’imprenditore rimasto in carcere per 25 anni negli Usa con l’accusa di omicidio e riportato in Italia dalla premier Meloni).

 

 

 

PRODUCONO LA GRAPPA
Polemiche, domande, curiosità, morbosità: la gestione del carcere di Verona - assediato dai media- è stata messa a dura prova e stravolta; la vita all’interno no. Perché Neumair, Turetta e Forti dentro le mura di cinta diventano semplicemente Benno, Filippo e Chico, tre tra i tanti che vivono, sopravvivono e convivono, esattamente come gli altri 602 detenuti (in gran parte stranieri). E loro, come tutti, passano il tempo tra corsi, sport, ore d’aria e iniziative che provano a riprodurre la vita senza restrizioni, anche se sono stati privati della libertà e sono dietro le sbarre. E se, alle 20 di ogni giorno, sbam, la cella si chiude. Ma come è realmente stare a Montorio? Come è l’organizzazione interna? Quali sono le problematiche? Che tipo di detenuti ci sono? Noi, per un giorno e per capire meglio, abbiamo sperimentato la quotidianità di questo carcere insieme con gli agenti, i reclusi, i volontari, la direzione.

La vita all’interno del penitenziario di Verona inizia alle 8, almeno per la polizia. Mentre la gran parte dei detenuti dorme (e solitamente lo fa fino a tardi), scatta l’appello degli agenti che iniziano il nuovo turno, 130 in totale: il tempo di rispondere «presente» e una parte di loro sparisce per andare a fare perquisizioni a sorpresa nelle celle (per legge devono lavorare sempre disarmati). Cercano droga, cellulari e soprattutto alcolici che sono «anch’essi vietati, ma i detenuti li producono facendo fermentare nello zucchero la frutta (ne hanno diritto a 3 kg a testa a settimana ndr) avanzata dai pasti», spiega l’ispettore capo Francesca Ruotolo. Da una porta laggiù verso le sezioni, intanto, sbucano quattro reclusi, ragazzi stranieri che devono uscire per andare alle udienze. Si siedono, aspettano. Poi vengono chiamati nella sala immatricolazioni (dove ogni giorno i nuovi arrivati lasciano i beni - ma tengono i propri vestiti perché non esistono divise - e prendono il kit per le celle), si fanno perquisire e allungano lentamente le mani. Vengono ammanettati e, se non sei abituato a vedere la scena, è il primo momento forte, di presa di coscienza della effettiva privazione della libertà.

All’esterno li aspetta un mezzo blindato e per tutto il tragitto si siederanno - sempre ammanettati - nel retro, dentro una celletta grande poco più di un metro. La zona dove ci sono gli uffici della polizia penitenziaria, la più lontana dalle sezioni, è la prima ad animarsi: passano i carrelli che hanno portato (alle 7.45) le colazioni nelle camere e arrivano i primi detenuti lavoratori. Sono gli addetti alle pulizie, che guadagnano 6.19 euro l’ora e così riescono a mettere via qualche risparmio (chista in cucina o fa manutenzione arriva a prendere anche 650 euro al mese). Già, i soldi.

All’interno del carcere non esistono banconote o monete, ma solo denaro virtuale. A ogni recluso, all’arrivo, viene aperto un conto del penitenziario sul quale potrà depositare sempre virtualmente - quanto guadagna, da utilizzare poi per le spese personali perché oltre a quanto viene servito dagli agenti per colazione, pranzo e cena, esiste uno spaccio per gli acquisti chiamato “sopravvitto”. Entro il giovedì mattina ogni detenuto può presentare una lista con segnati i prodotti desiderati (hanno il prezzo medio dei supermercati della zona) che poi gli verranno consegnati la settimana successiva. «I più richiesti sono caffè, gallette di riso, maionese, passata di pomodoro, spezie- spiegano gli agenti responsabili del servizio- e poi giornali e riviste, gas per i fornelletti.

Oltre, ovviamente, ai tabacchi, peri quali vengono spesi 40 mila euro al mese». E proprio le sigarette (Marlboro rosse, se ne possono prendere massimo dieci pacchetti a testa ogni settimana) sono le più ambite perché diventano moneta corrente per gli scambi e per i baratti. O fiches per giocare a carte. Dopo i reclusi diretti ai processi, che escono dal carcere scortati, ad andare all’esterno sono gli “articolo 21”, cioè quei detenuti che hanno il permesso di lavorare fuori dalle mura e che rientrano solo a dormire. Un’autorizzazione solitamente concessa a chi è vicino alla fine della pena, ma in rari casi anche se - come per l’uomo albanese che passa davanti noi - stai scontando l’ergastolo per omicidio: negli ultimi 15 anni il suo comportamento è stato impeccabile, dà massime garanzie e ogni giorno prende la bici elettrica e va a fare il cuoco.

PANE E ODONTOTECNICI
Nel frattempo piano piano, con l’avanzare della mattina, il penitenziario inizia ad animarsi con l’arrivo di avvocati, volontari, educatori, insegnanti. Le attività più seguite sono quelle scolastiche, soprattutto dagli stranieri che frequentano corsi di “alfabetizzazione base” (nella classe che incontriamo sono una decina - in gran parte nigeriani e marocchini - e sono in Italia da molti anni, arrivati quasi tutti passando irregolarmente dalla Spagna e poi dalla Francia), di “scuola media” (15 alunni tra marocchini, che scontano pene legate alla droga, e russi, che sono dentro per rapine: raccontano che sono venuti da noi perché «qui il lavoro nero non è un reato grave»), di “Cucina e panificazione” (ha partecipato pure Chico Forti) e per “odontotecnici” (su 18 che si iscrivono al primo anno in media in 5 si diplomano al quinto. «Purtroppo da quattro anni non abbiamo un dentista - spiega il responsabile - altrimenti potremmo curare tutti i detenuti»).

Questa zona, dove ci sono la maggior parte delle aule (e dei laboratori tipo falegnameria, panificazione, sartoria, informatica), è la parte centrale del carcere, quella in cui ha sede l’Ufficio di sorveglianza (centro nevralgico della polizia, operativo 24 ore su 24, che affronta tutte le emergenze) e dove c’è anche una grande chiesa, nella quale alcuni detenuti - tra cui Turetta, con una vistosa felpa arancione - stanno allestendo il presepe e sistemando gli strumenti musicali (lui ultimamente prende lezioni di chitarra) per il prossimo spettacolo di Natale. Qui, dall’atrio, partono poi le due palazzine con le sezioni principali (ognuna delle quali ha 24 celle che ospitano 4 detenuti: non ci sono separazioni tra giovani e adulti e nemmeno in base alla pena da scontare) che sono sei (Turetta è nella terza, quella dei “Sex Offender” riservata ai crimini a sfondo sessuale, Neumair e Forti in quelle ordinarie). «Il sistema prevede sezioni a regime ordinario e a trattamento intensificato - spiega Francesca Gioieni, direttore del carcere-, nelle prime i detenuti hanno diritto a 8 ore fuori dalle celle, 4 delle quali all’aria aperta, mentre nelle seconde le ore libere sono di più e vengono impiegate in varie attività come corsi o lavori. Per guadagnare il trattamento intensificato il detenuto deve dimostrare nel tempo la capacità di adattamento al sistema e di rispetto delle regole, ma se questi requisiti vengono a mancare si può fare anche il percorso inverso e tornare al regime ordinario. C’è poi un’altra sezione che è quella dell’articolo 32, che serve a gestire reclusi che hanno delle particolari difficoltà nell’adattamento carcerario perché esercitano sopraffazione sugli altri o perché mostrano atteggiamenti violenti nei confronti degli altri carcerati».

Qui (è la seconda sezione, ci si può stare massimo per sei mesi rivalutabili) i detenuti hanno meno libertà di movimento per partecipare alle iniziative comuni o ai corsi. Infine c’è una sezione isolamento disciplinare, costituita da 5 camere singole nelle quali i reclusi che commettono aggressioni particolarmente gravi possono stare per un massimo di 15 giorni.

 

 

 

FLIRT CON LE DONNE
Il carcere di Montorio, nella parte delle sezioni, è strutturato su due piani e all’esterno ha una grande zona verde - in cui c’è l’orto, un giardino dove incontrare i parenti e poi spazi con cani, cavalli, conigli, tartarughe - e un campo da calcio in erba, dove lo scorso maggio ha celebrato la messa Papa Francesco e dove vengono organizzato tornei tra le squadre del penitenziario (i detenuti hanno pure una palestra per allenarsi a calcetto e piccole palestre per pesi in ogni sezione).

Ora, con il freddo, il campo, oltre che per giocare, viene usato per sfruttare le quattro ore d’aria, camminare ma anche come fanno due ragazzi sulle bandierine del calcio d’angolo davanti agli occhi degli agenti - comunicare, urlando, con le detenute (sono 43) che vivono nella palazzina a fianco dove c’è la sezione femminile. «Sì, a casa ho una fidanzata ma mi piace parlare con lei», dice un giovane marocchino indicando una donna nigeriana alla finestra. E spesso, proprio così, nascono flirt e fidanzamenti virtuali. Il campo da calcio, però, è anche il posto che va controllato con più attenzione. «Ci siamo accorti che dal lato che confina con il muro di cinta, dall’esterno, vengono buttati pacchi che contengono cellulari e droga, che poi alcuni detenuti vanno a recuperare - racconta la comandante Gabriella Caputo - Ne intercettiamo anche tre al mese».

Già, la droga. La maggior parte di chi è finito qui dentro che sia in attesa di giudizio (sono 170) o già condannato (338 i definitivi) - è tossicodipendente o dipendente da farmaci. I numeri di Montorio, che è tra i dieci carceri più affollati d’Italia, sono preoccupanti: la capienza regolamentare sarebbe di 335 persone, ma i detenuti attualmente sono 605. «Ne arrivano in media 6/7 al giorno spiega un’educatrice - e quelli che escono per fine pena o misure alternative sono in media 3. La maggior parte dei reclusi è straniera: sono 379, il 62%, mentre gli italiani sono 226. La seconda nazionalità più rappresentata è il Marocco (145), a seguire Tunisia (45), Romania (32) e Albania (29). La fascia di età dei giovani adulti, quelli che vanno dai 18 ai 25 anni, è in continua crescita: attualmente sono 145».

I disagi che portano questi ragazzi - molto spesso di seconda generazione - in carcere sono tanti, ma il principale resta quello legato alle sostanze stupefacenti e all’abuso di farmaci. «Cercano insistentemente lo psichiatra per farsi prescrivere medicinali e spesso arrivano a gesti di autolesionismo pur di ottenere psicofarmaci», racconta il dottor Carlo Poggi, dirigente sanitario. Le parole magiche, per i detenuti, sono tre: “Lyrica”, “Rivotril” e “Akineton”. Sono medicine che, se assunte in dosi massicce, magari associate alla grappa, provocano un effetto simile alle droghe ed è per questo che la polizia penitenziaria controlla tutto con grande attenzione cercando di contrastare il sorgere di un mercato illegale (per i detenuti una compressa vale un pacchetto di sigarette).

«Ma non pensiate che ciò che succede in carcere sia tanto lontano da quanto accade fuori - precisa ancora la direttrice Francesca Gioieni -. Anzi, noi siamo lo specchio della società. Le mura del carcere non consentono alle persone di vedere noi, ma la cosa incredibile è che noi vediamo gli altri: per noi le mura non esistono, perché ogni persona che entra qui rappresenta un pezzo del territorio e tutto quello che si porta dietro è una storia, è un sistema sociale, è un disagio sociale».

SI CHIUDONO LE CELLE
La giornata nel frattempo continua e dopo pranzo (nelle celle il cibo arriva alle 12) c’è spazio, in base ai turni delle sezioni, per gli incontri con i familiari, i colloqui con gli avvocati o altre attività. Come andare in biblioteca. I detenuti la sfruttano per prendere libri (i più richiesti sono romanzi thriller e di avventura), ma pure per partite a carte e sfidarsi a scacchi. O imparare a giocarci, visto che per tutta estate c’è stato un maestro particolare: Benno Neumair. Il 33 enne si è impegnato a dare lezioni agli altri detenuti fino allo scorso 12 settembre, quando la Cassazione gli ha confermato l’ergastolo con un anno di isolamento diurno: da allora addio scacchi perché sta in una cella singola senza possibilità di relazionarsi con altri detenuti.

«Sono arrivata a dirigere questo carcere il primo febbraio 2023 - racconta la direttrice Francesca Gioieni - ed è stato un incarico impegnativo. Fare un bilancio è sempre difficile, si tende a pensare che avremmo potuto fare di più e meglio. Ma una riflessione più razionale ed oggettiva mi porta a dire che grazie ad un grande lavoro di squadra abbiamo fatto tanto e bene, soprattutto alla luce delle condizioni date non sempre favorevoli odi facile gestione. Il merito va a tutti coloro che in questi due anni hanno condiviso con grande senso del dovere e orgoglio la gestione della quotidianità come quella di eventi eccezionali e uno tra tutti la visita, a maggio, del Santo Padre. Le donne e gli uomini della polizia penitenziaria hanno mostrato tutte le loro migliori qualità operative e hanno lavorato insieme agli operatori dell’area trattamentale, dando concretezza quotidiana ai principi contenuti nell’art 27 della costituzione». La giornata è al termine (alle 18 viene portata la cena), è il momento di andarsene. «Vuoi dormire con noi? Se ti va c’è un posto libero nel letto a castello: stasera cucino pollo alla marocchina», dice scherzando un giovane detenuto mentre sale le scale. Sì, perché ormai sono le 20. E, come tutte le sere, tutte le porte di tutte le celle vengono chiuse tutte a chiave. Sbam.