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Telefonino, quando il cellulare era una cosa nuova: "Io? Non ce l'avrò mai!"
Un vecchissimo e ingiallito articolo pubblicato il 26 giugno 1962 sul settimanale “Trapani Nuova” - lo trovate facilmente su Internet e i più esperti sostengono sia tutto vero, niente bufala- annunciava nel titolo che «Nel 2000 i telefoni faranno tutto loro», per spiegare poi che «secondo tre esperti americani leggeremo i giornali attraverso la rete telefonica e potremo anche servircene per le operazioni in borsa». Ora, dopo 62 anni, fa impressione constatare che J.H. Felker, C.M. Mapes e H.M. Boettinger della American Telephone and Telegraph Incorporated (At&t) avessero previsto tutto così nei dettagli, intuendo pure che l’inseparabile cellulare ci avrebbe accompagnato giorno e notte, inghiottendo la nostra vita.
E pure la nostra identità. Già, perché da qualche giorno è possibile installare sul telefonino, nell’applicazione IO, anche i documenti personali come patente, tessera sanitaria e carta europea della disabilità, e il «cogito ergo sum» di Cartesio (penso, quindi sono) ora andrebbe modificato in «digito ergo sum». Eppure, per arrivare a questo punto, lo smartphone (sì, fa ridere, ma c’è ancora qualcuno che lo chiama così) ha dovuto superare mille perplessità, ironie, ostacoli. E basta andare a rivedere come l’avevamo accolto tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 per sorridere di fronte alla nostra poca lungimiranza.
«Io quell’aggeggio lì non lo comprerò mai», dicevamo con aria snob. E c’era pure chi lo boicottava. Non ci credete? A inizio gennaio 1989, quando al salone elettronico di Las Vegas (International winter consumer electronics show) vennero presentate le ultime proposte tecnologiche tra cui, appunto, i telefoni cellulari, la reazione degli esperti di settore fu fredda. Anzi glaciale.
«Non sono emerse novità rivoluzionarie- sentenziarono- bisogna puntare sui vecchi prodotti». Cioè walkman, forni a micro onde e videoregistratori. Dei geni. Poco a poco, però, ci siamo dovuti aprire a quella clamorosa novità in arrivo dagli Usa, pur non capendola subito fino in fondo. Perché le notizie che rimbalzavano dall’America, a maggio 1990, parlavano di un «telefono del futuro, tascabile e poco più grande di un pacchetto di sigarette, pronto a entrare in funzione in via sperimentale in due località» e poi, un mese dopo e con più clamore, le agenzie annunciavano che «sarà possibile estrarre un telefono dalla tasca e chiamare qualsiasi angolo del pianeta, dai ghiacci del Polo Nord al deserto del Sahara».
E concludevano: «Un’immagine da fantascienza che sta per diventare realtà: la Motorola ha annunciato un progetto per creare una rete telefonica planetaria usando 77 satelliti in orbita bassa intorno alla terra». Sì, i cellulari stavano iniziando a entrare nelle nostre vite, con gli evidenti vantaggi ma anche con le prime controindicazioni che nel tempo, poi, abbiamo purtroppo imparato a conoscere ampiamente.
Come la maleducazione. A fine 1990, nei cinema americani, iniziarono ad apparire i primi cartelli di divieto («I gentili clienti sono pregati di lasciare i telefoni cellulari al guardaroba») e il nuovo maledetto strumento fu presto bandito anche nei ristoranti di lusso («La gente viene qui per godere il cibo e la tranquillità - disse Sirio Maccioni, manager del “Le Cirque” di New York -, non gradiamo che i nostri clienti conducano le loro conversazioni d’affari ai tavoli del nostro ristorante»), mentre qualcuno ipotizzava di dividere i locali in due: area “cellulare” e area “no cellulare” e tutto sommato non era una brutta idea.
Maleducazione, ma anche salute. I primi allarmi, sempre in quei mesi, li lanciò l’Istituto nazionale svedese di protezione delle radiazioni di Stoccolma: «Molti strumenti medici sono sensibili ai segnali emessi dai cellulari - spiegò - e si è registrato il caso di un defibrillatore cardiaco automatico che si è attivato improvvisamente a causa di un telefono portatile a cinque metri di distanza». E in Italia? Da noi sono stati i cinepanettoni e i Mondiali del ’90 a sdoganare i telefoni portatili, ma anche a scatenare le tipiche situazioni e reazioni all’italiana.
Come le battaglie sociali («Sono fonte di pericolo se usati al volante di un’auto e dovrebbero essere vietati», tuonò nell’aprile 1991 Volare, l’associazione Internazionale per la tutela delle persone handicappate, allora si chiamava così: si badava alla sostanza più che alla forma politicamente corretta, ma questa è un’altra storia), e poi le prime frodi (dieci avvisi di garanzia a Napoli per «truffa ai danni di numerosi possessori di radiotelefoni e cellulari») e, ovviamente, un’immancabile tassa («Una delle ipotesi all’esame del governo è la tassazione dei beni di lusso e fra questi i telefonini cellulari», annunciò l’allora ministro del bilancio Cirino Pomicino).
Non ce ne stavamo rendendo conto, ma ormai la nostra vita era cambiata e stavamo entrando nella perversione dell’essere sempre aggiornati con i nuovi modelli (a proposito, incredibile, il 27 agosto 1992 la Audivox lanciò il Minivox che pesava 173 grammi, esattamente quanto l’ultimo Iphone 16 uscito due mesi fa, ed esultava perché la batteria durava ben sessanta minuti!), dell’avere tutte le funzioni più strane e, con Internet, dello scaricare ogni tipo di app, meglio se inutile. Sì, il cellulare poco alla volta ci ha inghiottiti e, la cosa più inquietante, è che ormai è impossibile tornare indietro.