La riflessione

Sergio Ramelli, perché spaventa le cattive coscienze

Annalisa Terranova

Pier Paolo Pasolini scrisse: «In realtà ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente; abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti...». Un atteggiamento che si perpetua nel tempo. Non altrimenti si possono leggere gli episodi di ostracismo nei confronti del nome di Sergio Ramelli, vittima dell’odio antifascista che vomitava slogan tipo «camerata basco nero il tuo posto è al cimitero» riecheggiato negli ultimi giorni anche alla Sapienza a Roma.

Dal 1975 Ramelli riposa in un cimitero: gli avevano sfondato il cranio a colpi di chiave inglese. Era un ragazzo come tanti: amava Celentano e il calcio, avrebbe voluto studiare chimica all’università, aveva una ragazza di nome Flavia. Sono testimonianze della madre Anita, raccolte nel libro Sergio Ramelli, una storia che fa ancora paura (Idrovolante), scritto a più mani da Guido Giraudo, Andrea Arbizzoni, Giovanni Buttini, Francesco Grillo, Paolo Severgnini.

 

 

 

Giunto alla decima edizione, sarà al centro di un dibattito domani alla Camera (ore 17, Sala Tatarella) con il presidente del Senato La Russa e altri parlamentari di FdI. La drammatica vicenda di Ramelli è narrata anche nel libro di recente uscita di Nicola Rao, Il tempo delle chiavi (Piemme), che è stato al centro di una puntata di Porta a Porta in cui Ignazio La Russa (che rappresentò la famiglia Ramelli al processo contro i suoi assassini) si è confrontato con Massimo D’Alema. Entrambi in quell’occasione hanno concordato su un punto: i toni violenti dei Settanta non devono tornare e ragazzi uccisi come Sergio devono appartenere alla memoria collettiva nazionale.

Eppure diversi segnali allarmanti testimoniano che non è questo il clima che si respira in Italia. Anzi. Tre vicende significative lo dimostrano con preoccupante chiarezza. A Busto Arsizio il locale comitato antifascista si è opposto all’intitolazione di uno spazio pubblico alla memoria di Ramelli parlando di «sfregio alla democrazia» e sostenendo chele idee di Sergio «rappresentano tuttora un’opinione non degna di rispetto o memoria pubblica». Non si guarda dunque alla persona, alla vittima, a un giovane massacrato, ma alla sua presunta ideologia.

Secondo episodio: sabato 30 novembre in piazza Gorini a Milano è apparso uno striscione che recitava: «Benvenuti nella Milano antifascista». E sotto due date: 28 giugno 1945 e 13 marzo 1975. Un chiaro riferimento, quest’ultimo, all’omicidio di Ramelli, aggredito da un commando di Avanguardia operaia proprio il 13 marzo del 1975. Si rivendica in nome dell’antifascismo un brutale omicidio promettendo una lugubre replica con la scritta «coming soon».

Terzo episodio: a Sesto San Giovanni si litiga per l’intitolazione di una via a Ramelli e di una a Enrico Pedenovi, avvocato e consigliere Msi della Provincia di Milano ucciso nel 1976 da Prima Linea. Perché non si può avere memoria di queste due vittime innocenti? Lo spiega da par suo Michele Foggetta, consigliere comunale di Avs che rappresenta l’opposizione in commissione Toponomastica. «Ho trovato questa proposta pretestuosa, provocatoria e soprattutto divisiva».

 

 

 

Mezzo secolo dopo, i morti di destra sono ancora di serie B. Il nome di Sergio terrorizza le cattive coscienze di chi non sa guardare alle pagine buie della propria storia, di chi non sa rinnegarle e non è disposto a riconoscere che non ci sono cuori neri ma solo cuori che hanno cessato di battere. Eppure la storia di questo ragazzo normale coi capelli lunghi e il sorriso disarmante continuerà ad essere raccontata, continuerà a interrogarci. Ha già ispirato un’opera teatrale e un fumetto. E arriveranno altri libri: il prossimo anno usciranno infatti quelli di Giuseppe Culicchia (per Mondadori) e di Pino Casamassima (per Solferino).