Il Pontefice

Papa Francesco smonta la sinistra: "Non emigrare è un diritto"

Giovanni Sallusti

Sì va bene, siamo nati da più di ventiquattr’ore, ci rendiamo conto che mezza frasetta del Papa su Gaza sufficientemente allineata al mainstream possa innescare il baccano delle anime belle. Poi, però, ci sarebbero le altre migliaia di battute del suo nuovo libro La speranza non muore mai anticipate nella doppia paginata su La Stampa, che innalzano viceversa un controcanto strutturale al mainstream su uno dei temi ad esso più caro: l’immigrazione. Poiché la testata torinese non se ne accorge, o finge di non accorgersene, tocca valorizzare qui l’anteprima dei colleghi, visto che, come direbbe Bersani, non si può ignorare l’elefante nella stanza.

D’altronde, è lo stesso Bergoglio a calare subito il carico: «Riaffermo qui che è assolutamente necessario affrontare nei Paesi d’origine le cause che provocano le migrazioni». E già siamo ampiamente fuori dal bigino progressista: a fianco della fisiologia del fenomeno migratorio (che nessuno, tantomeno il Papa, nega), c’è un aspetto patologico, che risiede anzitutto nei luoghi di partenza, nelle loro condizioni, nelle opportunità mancate e nel conseguente traffico allestito sulla disperazione. È lo spaesamento del punto di vista rispetto al luogocomunismo diffuso, tutto concentrato sui luoghi di arrivo (noi, i Paesi europei e occidentali) e sul loro dovere di accettare a prescindere il dogma mondano dei flussi ineluttabili. Piuttosto, scrive Francesco, «è necessario che i programmi attuati a questo scopo garantiscano che, nelle aree colpite dall’instabilità e dalle ingiustizie più gravi, si dia spazio a uno sviluppo autentico che promuova il bene di tutte le popolazioni, in particolare dei bambini e delle bambine, speranza dell’umanità». Occorre uno «sviluppo autentico» che riscatti il Terzo Mondo (pezzo del discorso sempre omesso dalla retorica dell’accoglienza sterile, perché non fa chic, non si presta a post lacrimevoli e non garantisce sponda a nessun amico di nessuna cooperativa), occorre che i dannati della terra non siano più dannati anzitutto nella loro terra, dice il Papa.

 

 

 

«Dobbiamo coinvolgere i Paesi d’origine dei maggiori flussi migratori in un nuovo circolo virtuoso di crescita economica e di pace che includa l’intero pianeta». Dobbiamo rimuovere i motivi dell’immigrazione come esodo forzato, dobbiamo evitare lo s-radicamento imposto da cause di forza maggiore: è la disfatta del racconto progressista, il quale vorrebbe convincerci che lo sradicamento è la condizione esistenziale canonica e fin auspicabile. Viceversa, «affinché la migrazione sia veramente libera, è necessario prodigarsi per garantire a tutti una partecipazione equitativa al bene comune, il rispetto dei diritti fondamentali e l’accesso allo sviluppo umano integrale». La migrazione libera è una scelta, non una fuga, è il messaggio di Francesco, che s’inserisce a modo suo nella scia dei predecessori (che poi è quella della carità cristiana autentica, assai diversa dal business pseudocaritatevole praticato da chi spesso lo tira per la tonaca). Benedetto XVI: «Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra». Giovanni Paolo II: «Costruire condizioni concrete di pace, per quanto concerne i migranti e i rifugiati, significa impegnarsi seriamente a salvaguardare anzitutto il diritto a non emigrare, a vivere cioè in pace e dignità nella propria Patria».

 

 

 

RATZINGER E WOJTYLA
Il diritto ad andarsene, cronologicamente, esiste solo se esiste il diritto a rimanere, altrimenti si chiama in un altro modo, si chiama «traffico e sfruttamento di persone» ricordava sempre Ratzinger, ed è l’opposto del cristianesimo. Continua infatti il suo successore: «Solo se questa piattaforma basilare verrà garantita in tutte le nazioni del mondo potremo dire che chi migra lo fa liberamente e potremo pensare a una soluzione davvero globale del problema».

Già il fatto che l’immigrazione di massa rappresenti un “problema”, e non una festa multiculti, è la sconfitta semantica definitiva per tutti quelli che avevano seriamente tramutato il Papa nell’assistente di Casarini. Poi, c’è la sostanza, che è ancora più distruttiva perla gauche avvezza a brindare agli sbarchi (rintanata nella propria Ztl, ovviamente): il problema lo si risolve là, “a casa loro” diremmo con semplicismo non-papale, ripristinando condizioni minime per vivere e per autodeterminarsi. Capiamo che la fattibilità di un titolo implicitamente anti-israeliano mandi in fregola i colleghi, ma qui c’è una notizia enorme: il Papa smonta l’immigrazionismo ideologico. Sarebbe più facile ignorare l’elefante nella stanza.