Meteo e psiche

Meteo, quattro stagioni in una sola giornata: la follia che fa impazzire tutti

Francesco Specchia

Signora mia, non esistono più le mezze stagioni. Che il caldo sia oramai l’invincibile maledizione degli dèi, lo sto scoprendo ogni santa mattina di quest’ottobre bipolare. Lo scopro nell’esatto momento in cui, alla temperatura di 7-8 gradi umidi e ricoperti di brina, accompagno i bambini a scuola, in auto; e accendo a palla il riscaldamento, tipo falò di un inuit nelle notti siberiane; e costringo i miei due teppisti ad annegare in una prigione di sciarpe e piumini d’oca, come neanche Totò e Peppino col colbacco sbarcati alla stazione di Milano. Poi, però, lo scenario muta, assieme alle buone intenzioni. Perché, quattro ore dopo, la temperatura è già salita a 26-28 gradi centigradi. L’abitacolo dell’auto diventa un hammam e i figli tornano immancabilmente a casa in t-shirt, imprecando e trascinandosi dietro l’equipaggiamento invernale di un inverno che però non arriva mai. Sicché, le previsioni del tempo vanno a farsi fottere, come la credibilità dei meteorologi e la mia personale credibilità di padre inutilmente apprensivo. Queste bizze afoso-piovasco–uraganiche, solleone e nubifragi, grandine e picchi di scala Celsius, si alternano sempre per circa due-tre giorni. Giusto il tempo di permettere al maledetto anticiclone africano di mangiarsi il mite anticiclone delle Azzorre. Giusto il tempo di manipolare, indirettamente i nostri guardaroba, spostando il cambio giacche estive a quelle tardo-invernali e l’idea della settimana bianca a data da destinarsi.

Dopodiché, alla faccia delle previsioni del colonnello Giuliacci e dei suoi fratelli, riecco la città riattraversata da freddo polare. E siamo daccapo. Si torna a ripescare gli abiti invernali dall’armadio: il cotone fa posto al fustagno, le caldaie ai condizionatori, il running sul Naviglio alle palestre dense del sudore e dell’afrore della classe media. Le gite pasquali, fino a qualche ora prima anticipate ad autunno, vengono di nuovo surrogate dal Natale dicembrino- festa fredda- che, assieme ad Halloween, torna ad essere evocata come un obiettivo familiare di medio termine. Il caos, in pratica. Di questi tempi, il tempo, specie quello meteorologico, è tutt’altro che galantuomo. Certo, poi, il refrain resta sempre lo stesso. Vedi che a Palermo si fanno ancora il bagno nell’acqua da brodo; che in Val d’Aosta i ghiacciai rattrappiti spostano i confini degli Stati; che a Chicago, da sempre una delle città più fredde del mondo, i runner si allenano a torso nudo sulle rive del lago Michigan. Osservi, insomma, questo mondo impazzito, strattonato dalle misure fuoriscala e da record di canicola superati sempre da quelli dell’anno successivo. Lo osservi, e pensi che mai come ora la stagione delle basse temperature è stata una terra incognita; e che questo caldo/freddo, questa surreale giostra atmosferica, stravolge il sistema termodinamico conosciuto almeno quanto quello nervoso.

 

 

 

Per esempio, aumentano le zone invivibili del pianeta. «Nello specifico, si parla di “bulbo umido” quando il clima è caratterizzato da alti livelli di calore e umidità, combinazione che inibisce la capacità del sudore di raffreddare il corpo e raggiungere la temperatura interna di 37 gradi, indispensabile per sopravvivere», mi fa un amico scienziato, citandomi il giorno di “caldo letale” di quest’estate, quello che alla Mecca causò la morte di 1300 pellegrini. Il bulbo umido. L’ultimo terrore. Hai voglia, dopo, per sdrammatizzare, ad evocare alla prole il valore letterario dell’insieme, la fascinazione del caldo e dei suoi eroi: Aschenbach il protagonista di Morte a Venezia «su cui stagna una calura afosa e ripugnante, il tormento in cui in l’aria di mare unita allo scirocco lo precipitavano»; o Robby della Rimini di Tondelli, che si muoveva in un «caldo appiccicoso e denso, un caldo sporco»; o la Lolita di Nabokov su cui la torrida estate provocava decisi effetti ormonali. No. Non ci sono giustificazioni culturali che reggano. Il caldo d’ottobre resta un esprit innaturale.

 

 

 

In un articolo del New York Times Nicholas Kristof, uno che ha sempre scritto - senza essere apocalittico - di “rutti di metano”, di tempeste indotte, di acidificazione dei mari addirittura ipotizza che il cambiamento climatico possa influenzare anche la criminalità (soprattutto può aumentare i reati di aggressione aggravata e stupro) che il calore possa compromettere anche la nostra produttività. «Secondo uno studio britannico, un ufficiale di marina commette in media 11 o 12 errori all’ora nella traduzione del codice Morse quando la temperatura è compresa tra 85 e 90°, ma 95 errori all’ora quando la temperatura sale a 105°», scrive. E probabilmente ha ragione. Cesare Pavese odiando l’estate, si ammazzò ad agosto, mese identificato con la noia e il male di vivere. Oggi la nevrosi atmosferica confonde le carte: arriveremo alla tropicalizzazione dei nostri sentimenti e, quando i figli cominceranno ad andare a scuola da soli, riusciremo a non accorgercene...