Il Papa ha ragione, ma un cucciolo è magico

A volte un cane può salvare la famiglia

Giovanni Longoni

Il Papa ha ragione: abbiamo messo i cagnolini al posto dei figli. O almeno questo è quanto è capitato a me e a mia moglie. Quando il ragazzo che avevamo in affido se ne andò da casa nostra, per colmare il vuoto affettivo e dimenticare il fallimento come genitori decidemmo di prendere dei cani. Dei Golden Retriever.

La prima ad arrivare fu Alegra. Si scrive con una elle sola, come il saluto tipico nel romancio dell’Engadina. Naturalmente, Alegra è tutto fuorché una cagnetta allegra: ha occhioni marroni e malinconici, vive di coccole, è pigra, ama stare in terrazza a controllare il vicinato. In passeggiata è molto docile, tranne quando incrocia qualcosa che non le va a genio: biciclette, monopattini, camion, autobus, automobili, runners, bambini che corrono, bambini che urlano, immigrati che parlano ad alta voce nella loro lingua madre, stranieri in generale (in effetti è abbastanza salviniana).

 

 

 

Non sopporta tante altre cose ma poi, da cagnolona da salotto qual è, allorché incrocia un gatto si trasforma in una tremenda predatrice di felini. L’altro cane, più giovane di due anni, si chiama Brembo come il fiume bergamasco secondo per lunghezza. Escluso dalla scelta del nome l'altro corso d’acqua orobico: un animale così non poteva certo essere Serio. Se Alegra è un cane-gatto, Brembo è un vero cane: tonto, chisciottesco, fedele, buono, affettuoso con tutti gli umani. Non riuscirebbe a mangiarsi un gatto nemmeno in un ristorante vicentino. Unico neo: quando è al guinzaglio diventa aggressivo con i suoi simili. È molto bello, bianco (quando è lavato), muscoloso, con un testone grosso così. È fotogenico, spettacolare quando nuota o corre; «è il cane della pubblicità della carta igienica» dice mia moglie alla gente che lo ammira (in realtà quello era un cucciolo di Labrador ma da piccoli si assomigliano). Non bisogna però chiedergli di fare escursioni troppo lunghe: dopo un paio d'ore di scarpinata, si butta a terra e simula un malore. «Lasciatemi qui a morire. Vi ho voluto bene».

Il Papa ha ragione: i cani vanno in branco e ne basta uno perché si crei una famiglia. È capitato anche a noi: il ragazzo che avevamo in affido è tornato ad avvicinarsi a noi grazie ai due Golden, fratelloni pelosi per i quali nostro figlio stravede. Il Papa ha ragione ma fino a un certo punto. Non è vero che i matrimoni sono sterili per egoismo: se fossimo egoisti faremmo un po' di figli, li manderemmo a lavorare prima possibile perché ci mantenessero o almeno perché ci pagassero la pensione coi loro contributi. E ci terremmoin casa una femmina, la più timida, perchécucinasse, pulisseea tempo debito cifacesse da badante.

Così avveniva una volta quando la gente era mossa da sano e atroce egoismo e il mondo funzionava come un orologio svizzero. Oggi invece non facciamo figli per altruismo: perché non ci sentiamo all'altezza del compito di genitore (che ci sembra ed è diventato la cosa più difficile e innaturale del mondo), perché la vita ci spaventa, perché non vogliamo esporre altri esseri alla sofferenza. Tutto sommato chi non fa figli oggi non è così diverso dai molti che ne fanno e li caricano di aspettative. Un tempo quando di rampolli ne avevi sette o otto gli volevi bene ma con moderazione. Oggi l'amore paterno e materno è diventato una piaga sociale: ogni scarrafone deve laurearsi, avere un lavoro ben remunerato e gratificante, una vita felice e senza problemi e via così. Pari opportunità, nessuno lasciato indietro, queste le parole d’ordine. Un figlio è un gioiellino che deve sempre brillare. Non è ammesso essere sfigati, tutti avranno una vita splendida. Risultato: un numero abnorme di frustrati, falliti e psicolabili. È giusto volere bene al cane più che a un figlio? Sì: l'animale dipende in tutto da noi, lo costringiamo a vivere in un mondo che non è il suo, lui ci mette tutta la sua buona volontà e tutto il suo amore per noi. Il problema nasce quando vogliamo bene a un figlio come se fosse un cagnolino.