Il coro

Bayesan, gli eco-allarmisti usano la tragedia dello yacht

Daniele Dell'Orco

Lunedì mattina, pochi minuti dopo l’arrivo della notizia del naufragio dello yacht britannico Bayesian a largo delle coste palermitane, i polpastrelli dei catastrofisti hanno iniziato un incontrollato moto sussultorio.

Ancor prima di conoscere l’esatta dinamica della tragedia (a tutt’oggi poco chiara), il fatto che un veliero di lusso, maestoso, lungo 56 metri e con l’albero maestro alto come un grattacielo da una ventina di piani sia colato a picco in un minuto a causa della furia del mare, ha spinto gli ambientalisti ortodossi ad interpretarlo come un ennesimo, chiaro, inequivocabile segnale che Greta Thunberg abbia ragione e che la casa, intesa come il pianeta Terra, sia davvero in fiamme. Il capo della Protezione civile siciliana, Salvo Cocina, lì per lì ha spiegato che lo yacht di Mike Lynch, il “Bill Gates britannico” (ancora disperso insieme ad altri cinque membri dell’equipaggio), si sia trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.

 

 

 

E difatti, appena accanto alla Bayesian c’era anche un’altra imbarcazione, la Sir Robert Baden Powell, battente bandiera dei Paesi Bassi, che non solo non è stata nemmeno sfiorata dalla “tromba d’aria marina” o dal “downburst” letale (in assenza di immagini nitide, gli esperti discutono ancora sull’esatta tipologia di fenomeno) ma, grazie al suo capitano che ha avuto l’ottima idea di tenere i motori al massimo, è stata la prima a fornire soccorsi dopo il naufragio del natante di Lynch. Potrebbe essere già sufficiente per dimostrare che il fatto che la Bayesian si sia, di notte, all’improvviso, senza molta possibilità di manovra, trasformata da giaciglio a sarcofago sia stato dovuto ad una serie di concause.

Certamente, l’evento climatico è tra queste. Ma con le ricerche dei dispersi ancora in corso, con una nebulosa di informazioni da diradare, con una lista di coincidenze imputabili al cinico fato ancora da snocciolare, la scelta di portarsi avanti con la retorica eco-jihadista è davvero di pessimo gusto. Su La Stampa, ad esempio, Mario Tozzi, geologo e divulgatore scientifico, ha spiegato ieri cosa siano le trombe d’aria marine, e quanto la loro veemenza e la loro frequenza siano connesse al climate change. Lo ha fatto prima ancora di sapere se quella di Palermo sia stata davvero una tromba d’aria marina, e mettendo accuratamente in secondo piano elementi non proprio secondari che pure cita lui stesso: «Le perturbazioni meteorologiche a carattere violento sono in costante aumento in tutto il mondo come numero, intensità e frequenza».

Probabilmente è vero, come probabilmente è pure vero che oggi si misurano, e si ravvisano, più che in passato. En passant, lo ammette lui stesso: «Paragonati a quelli statunitensi, i tornado italiani sono, fino a oggi, davvero poca cosa: circa venticinque ogni dodici mesi, un numero probabilmente sottostimato, ma comunque sempre molto piccolo».

Sottostimato perché di certo non possono essere ravvisabili ovunque, ogni giorno, in mare aperto. Ma proprio in virtù di ciò, se si considera che siano fenomeni con una certa frequenza, anche superiore a quanto noto, si può fatalmente verificare, oggi, come venti anni fa, come un secolo fa, che qualcuno finisca addosso ad uno yacht ormeggiato. Questi, tra l’altro, sono aumentati a dismisura in giro per il mondo. Se ne contano 33 milioni. Quanti ne navigavano cinquant’anni fa? Quante probabilità in più ci sono, nel 2024, che un evento avverso incontri sulla sua strada un natante anziché il nulla?

Per fogli come Il Domani sono tutte domande inutili. Il loro titolo, infatti, è lapidario: «Il clima estremo uccide». Stessa linea di Alfonso Pecoraro Scanio, presidente della fondazione Univerde e già Ministro dell’Ambiente che si avvale del prezioso “consulto” del pescatore Massimo Lembo: «Sottovalutare il cambio climatico in atto è criminale. Basta chiedere a un pescatore professionista evi spiegherà che fino a pochi anni fa un evento temporalesco estremo veniva avvertito con 2-3 ore di preavviso. Oggi è tutto molto veloce e più forte e in 10/15 minuti puoi essere travolto». Nessun riferimento al fatto che questo evento temporalesco improvviso per avere conseguenze simili a quelle di Palermo debba colpire un albero alto 72 metri, che lo scafo possa aver avuto finestre e boccaporti aperti, che le reazioni del capitano possano non essere state impeccabili.

Sembra essere caduto nella trappola dell’iperbole fanatista green anche il meteorologo Paolo Sottocorona, professionista serio nonché inventore, proprio sulle colonne di Libero qualche mese addietro, dell’assioma «terrorismo termico», applicato ai continui allarmi dei media legati ad un clima che sì, sta cambiando, ma di certo più lentamente di quanto sia montatala carica ideologica. Sottocorona, da critico dei media, su Repubblica scivola su questa stessa buccia di banana: «Il Mediterraneo in questo momento è una tanica di benzina. Se ci metti un fiammifero, cioè una corrente di aria fredda come quelle di questi giorni, lui esplode». Potrebbe, involontariamente, aver suggerito a qualche eco-vandalo di andare ad accendere la miccia.