Il caso

Orsa uccisa in Trentino: rischi per i residenti e i turisti, chi contesta non ci vive

Claudia Osmetti

Ciò che segue non è una lagnanza nei confronti della politica o uno sfogo per le discussioni (sempre uguali) che ci trasciniamo da così tanto tempo che prima che far rabbia, ormai, fanno noia. Ciò che segue è un appello rivolto a chi vive in città, a chi è un animale dell’urbe, a chi la sua foresta è fatta di strade e grattacieli dove i pericoli sono ben altri: per favore, non banalizzate la montagna.

Non fatevi ingannare dai documentari in televisione o dai cartoni animati su Youtube: Kj1 non era il pacioso orso Yoghi col cappellino verde e il cestino della merenda che combinava guai dentro il parco di Jellystone. Era un plantigrado che ha attaccato un turista francese di 43 anni giusto la settimana scorsa, che si è “scontrato” con gli esseri umani almeno sette volte nel corso della sua vita, che di danni ne ha procurati, a malghe e coltivazioni, in almeno 68 occasioni differenti. Chi scrive queste righe, un po’ per nascita (valtellinese), un po’ per cultura, un po’ perché noi gente abituata agli inverni alpini abbiamo la scorza dura, capisce bene le ragioni dei trentini. Perché, anzitutto, tocca tenere a mente una cosa: Maurizio Fugatti, il presidente della provincia autonoma di Trento, in quota Lega, così vituperato nel resto d’Italia, è invece ben apprezzato nelle sue valli. E lo è perché lì, a Dro oggi come a Caldes l’anno scorso quando per un altro esemplare bruno, Jj4, è morto Andrea Papi, quello degli orsi è un problema con cui si convive a fatica. O forse non si convive affatto.

 

 

 

È vita, per un montanaro, se alla sera, in un rifugio a 2mila metri in quota, talmente alto che fa freschino anche ad agosto, dopo il calar del sole, senza sufficiente legna per alimentare il camino, scegli di passare il resto della notte al freddo piuttosto che mettere un piede fuori dalla porta, chissà che un orso non sia stato attirato dalla luce? Oppure se non te la senti più di andare passeggiare da solo (va bene la compagnia, ma la montagna, il suo incanto, la sua pace, sono esperienze che alle volte richiedono solitudine)? O se le sagre all’aperto non più, le scampagnate idem, le raccolte di funghi e di mirtilli nonne parliamo, azzerate completamente, la nostra esistenza vale più di una bacca? Ecco, la nostra esistenza. Che poi è la nostra libertà. Di movimento, anche. Di sicurezza. (E senza tirare in ballo quelle questioncine marginali che sono il turismo azzoppato e un commercio in contraccolpo: ci sono, chi le nega?, ma andiamo al sodo, ai nostri sentieri che di pericoli ne hanno sempre avuti, vero, ma che non sono mai stati una roulette della fortuna). Nessuno di noi cresciuti sopra il livello del mare ce l’ha coi plantigradi.

Un discorso a parte si potrebbe aprire per chi ha avuto la brillante (sic) idea di reintrodurli in luoghi dove erano scomparsi, ma lo spazio è poco (e la natura si autoregola da sola, sempre). Però tra la pelle di un orso e la nostra, perché chi ci abita a contatto sì, letteralmente, rischia la sua, noi concreti, pratici, forse un po’ burberi, montanari sceglieremo sempre la seconda. Magari a malincuore. Ma senza dubbi.