La morte del bracciante indiano

Satman, il paradosso dello sfruttatore già indagato da 5 anni: nessuno lo vedeva più

Gianluigi Paragone

Duecentomila braccianti invisibili, titolava l’altro giorno Repubblica nella sua solita retorica. Nulla invece è più visibile dei lavoratori sfruttati: possiamo tranquillamente disegnare una mappa degli abissi dell’umiliazione; il caporale è solo l’ultimo farabutto di una gerarchia di fetenti sfruttatori, dove ognuno trasforma le vite degli altri in un inferno per salvare se stesso. È tutto talmente visibile che non sorprende la carta mostrata nel suo telegiornale da Enrico Mentana per cui il titolare dell’azienda dove “lavorava” Satnam è indagato dal 2019 per reati attinenti al caporalato. La filiera dello sfruttamento non ha nulla di misterioso, niente e nessuno sono invisibili. Dall’agricoltura alla moda passando per l’edilizia: il caporalato mette le mani nel putrido, sa e ha imparato a indurire il proprio cuore come nemmeno la più bestia fa. Ma sopra il caporalato- dicevamo - ci sono gli altri che alimentano direttamente o indirettamente la filiera tossica. Il caporale è mostro perché gli altri mostri non li vedi. Nel gioco dell’ipocrisia le dichiarazioni dei politici seguono lo schema infantile dell’assegnare pagelline. Nel fischiare il sindaco di Latina perché straniero nella “loro” manifestazione. In quelle manifestazioni spot per sinistra e sindacati, Soumahoro - per fare un esempio - era il loro eroe buono, sempre anche quando qualcuno raccontava alcune cose che non andavano. Lo stesso fanno quei giornalisti e quei commentatori costretti a sospendere le loro ricerche sull’Italia fascista per dedicarsi a uno sfruttamento che - a loro dire - trova «nel governo di destra la stessa cultura della loro violenza» o dove «i lavoratori sfruttati devono salutare il busto del Duce conservato dal caporale». Questo è il giornalismo dei moralisti.

La mappa del caporalato è chiara. Perchè non l’andiamo a rompere? Perché continua a resistere? Forse perché se mandi l’esercito a bonificare lo sfruttamento e i carabinieri ad arrestare i cattivi, i buoni perdono il loro e gli sfruttati perdono la possibilità di mettere assieme i soldi per cui accettano le peggiori violenze. Più sei indebitato con qualcuno e più accetterai la compressione dei diritti fondamentali, la cui difesa è “vintage”. Chi arriva clandestino resta impigliato; chi torna a essere clandestino resta impigliato; chi deve pagare il pizzo agli scafisti e ai mercanti di esseri umani resta impigliato; chi ha più debiti da saldare resta impigliato... Potrei andare avanti a lungo ma sempre lì restiamo: quando lo Stato abdica dal controllo e si pensa che sia cattivo perché controlla rigorosamente le frontiere, vince quel mercatismo che surfa nello sfruttamento. Lo Stato deve controllare: le forze dell’ordine e l’esercito devono andare sistematicamente in quei campi e in quei luoghi dove il lavoratore diventa più conveniente della macchina. Lo Stato deve abbattere le baraccopoli.

 

 

Lo Stato deve andare nei mercati ortofrutticoli dove a essere sfruttato non è solo lo straniero ma anche il piccolissimo imprenditore agricolo italiano che si ritrova con un carico di frutta e verdura, risultato del suo onesto sudore, che diventa uno scambio asimmetrico e in nero perché «o è così o non ti compro niente». Ci vuole fermezza e rigore! Ci vuole rispetto dei diritti fondamentali. Non c’è bisogno di figurine come era stato Soumahoro. E ci sarebbe bisogno che un ex procuratore antimafia come Giancarlo Caselli, ingaggiato da Coldiretti come presidente dell’Osservatorio sulle Agrimafie, ci aiutasse a fare pulizia. Magari parlando anche a quei suoi ex colleghi forse troppo lenti e troppo blandi contro chi riduce donne e uomini a macchinari. Lo ripeto: di invisibile non c’è davvero.