La sentenza del Tribunale
Figli, a 30 anni non si può vivere con i genitori
Cari figli che vivete a casa dei genitori fino a trent’anni, è arrivata l’arma micidiale che vi farà levare le tende, volenti o nolenti: il Tribunale. A Torino un padre, esasperato dalla presenza in casa del figlio che, da quando aveva preso il diploma, a diciannove anni, non solo non aveva minimamente contribuito al bilancio familiare (come pure prescrive il codice civile, “in base alle proprie capacità e al proprio reddito”) ma neanche si sforzava di cercare un lavoro lagnandosi che un’occupazione stabile era impossibile da trovare, ha deciso di adire le vie legali.
In Italia, si sa, i tribunali – penali o civili, come in questo caso – sono in effetti la grande mamma e il grande papà di tutti gli italiani: sono capaci di dirimere qualunque questione, e hanno perfino il potere (davvero inaudito) di schiodare i figli pelandroni (o bamboccioni?) dai nidi, dove, altrimenti, resterebbero tenacemente attaccati come cirripedi su un vecchio scafo. La contesa non dev’essere stata priva di asprezze, e l’avvocato che ha assistito il padre ha parlato di «iniziativa molto sofferta, ma che ha avuto una finalità educativa».
Vero: durante il procedimento, evidentemente sollecitato dalla mossa paterna, il figlio ha dichiarato di essere riuscito finalmente a trovare un lavoro fisso come operaio. Molto bene, hanno pensato i giudici, a maggior ragione non ci sono «cause ostative» perché il giovane (sì, trentenne, dunque ancora giovane benché non giovanissimo) si trovi un alloggio per conto suo, che poi non è altro che il fatale passaggio dalla fanciullezza alla vita adulta, la linea d’ombra, la soglia oltre la quale finalmente i figli camminano con le proprie gambe e i genitori possono tirare un sospiro e non doversi preoccupare in tutto e per tutto della sorte della prole.
Per la verità, nella fattispecie non che il figlio fosse rimasto eternamente con le mani in mano: aveva svolto qualche lavoretto saltuario, sorta di alibi che ogni figlio che si rispetti usa per prolungare il più possibile il soggiorno nel focolare d’origine. Questi lavoretti saltuari non rischiano mai di trapassare nei temibili impieghi a tempo indeterminato, che effettivamente rappresenterebbero un trauma, nella mente del vispo figlio (immaginario, non parliamo qui del giovane di Torino) intenzionato a prolungare l’adolescenza, se possibile, fino all’inevitabile decesso dei suoi. Il fatterello di cronaca, di per sé secco e succinto, apre molte riflessioni in un paese, come il nostro, dove il legame tra i genitori e i figli, dopo quello del cordone ombelicale, si riforma sotto forma di nodo scorsoio.
E ancora in un paese, come il nostro, dove qualunque conflitto, dissidio, contrasto si risolve, ormai – vogliamo dire da Mani Pulite in poi? – ricorrendo alle famose sentenze “che non si commentano”, come fossero voci soprannaturali, dirette comunicazioni con la divinità. Certamente è cosa buona e giusta che un figlio, già prima dei trent’anni perla verità, cominci a sentire l’esigenza di avere un suo spazio, una sua autonomia da quella che, sanamente, dovrebbe sentire come la soffocante cappa in cui convive con mamma e papà e eventuali fratelli e sorelle. Altrettanto importante è che questa esigenza di indipendenza e libertà, favorisca anche l’ingresso nel mondo del lavoro, ben di là dai citati lavoretti saltuari. Tutto ciò risponde a un quadro normale di sviluppo.
Evidentemente, però, più da noi che altrove, questo meccanismo si inceppa da qualche parte, e si deve ricorrere a estreme misure, un poco avvilenti per entrambe le parti, con l’invocazione della suprema, incommentabile autorità di un giudice di tribunale. L’avvocato dice che tutto il procedimento ha avuto una finalità educativa, ma non fa un po’ sorridere parlare ancora di “educazione” per un uomo di trent’anni? Ma questa è l’Italia: tutto è educativo, la pedagogia straripa in letteratura, nella politica, nelle riflessioni degli intellettuali, insomma ovunque si esprime il doveroso anelito alla formazione dei giovani (categoria nella quale, si sa, si ricomprendono classi anagrafiche anche molto oltre i trent’anni) e poi però si arriva al paradosso per cui tutto questo discorrere, incitare, formare, non serve a niente e si disintegra contro l’ennesimo ragazzo non cresciuto, l’ennesimo adolescente infinito, e allora arriva il tribunale, anche quello, si capisce “educativo”. Inutile dire che una vera educazione termina molto prima dei trent’anni e, in ogni caso, non si serve del braccio giudiziario.