Dispute
Savoia, i gioielli contesi nel caveau di Bankitalia: quanto valgono
Il cofanetto di pelle nera a tre ripiani, con fodera in velluto azzurro, dal 5 giugno del 1946 giace impolverato nel caveau della Banca d’Italia, mai esposto al pubblico ma richiesto, invano, allo Stato italiano dagli eredi di casa Savoia. Contiene la parte più preziosa del tesoro della Corona: 6.732 brillanti per oltre 10mila grani, di cui 1.859 in una sola collana e almeno 2mila perle di varie misure montate su collier, orecchini, spille, senza contare gli altri pezzi non catalogati e ammassati in sacchi nei sotterranei di Palazzo Koch. È materiale protetto da ben cinque sigilli del ministero della Real Casa e sei della Banca d’Italia al centro di una disputa lunghissima e mai risolta tra monarchia e Repubblica. Una stima fatta fare nel 2007 da Vittorio Emanuele da Sotheby’s aveva rivelato la cifra monstre di 260 milioni di euro ricavabile da un’eventuale vendita di questo bendidio. Ma i Savoia non hanno mai pensato di fare cassa con i gioielli appartenuti alla regina Margherita donati dal consorte. Il loro desiderio era poterli riavere in quanto beni privati, di famiglia, regali del re Umberto alla moglie. E invece queste gioie hanno rappresentato forse l’ultimo dolore per il principe morto ieri a Ginevra. Perché nonostante le «richieste formali», e un inizio di causa che poi è stata ritirata, i brillanti sono rimasti dov’erano, a via Nazionale.
Quel cofanetto è stato aperto una prima volta, nel 1976, su disposizione della procura di Roma che aveva avviato un’inchiesta dopo che il settimanale, Il Borghese, aveva ipotizzato la scomparsa di alcuni gioielli. Una perizia della maison Bulgari accertò che il tesoro era intatto, quindi furono riposizionati i sigilli e sulla vicenda calò il sipario. Nel ’73 altro colpo di scena: inchiesta dei pm (uno poi fu assassinato) e forzieri aperti. Poi nel 2006 la Regione Piemonte chiede all’allora governatore di Bankitalia, Mario Draghi, il permesso di esporre i gioielli della Corona in occasione delle Olimpiadi di Torino, ma non se ne fece nulla.
Fino al 2022 quando i figli di Umberto II, con gli avvocati, si sono mossi in sede civile contro la presidenza del Consiglio e il ministero dell’Economia per pretendere la restituzione degli ori lasciati in Italia nei momenti concitati nella fuga in Portogallo del re esiliato. Un’udienza è fissata per il prossimo 2 ottobre. L’ultima, pare.
Anche Emanuele Filiberto rivendica quei beni «proprietà privata», ma in realtà non ha mai voluto procedere contro lo Stato. Il contenzioso ruota attorno alla Disposizione XIII della Costituzione: per i principi è incoerente con l’articolo 42, comma 3, che vieta l’espropriazione da parte dello Stato dei beni privati. Però quel comma è ancora in vigore e solo un ricorso alla Corte europea dei Diritti dell’uomo potrebbe, forse, dare loro una speranza. «Vittorio Emanuele non voleva per sé quel tesoro», è la linea ribadita da Ginevra, «casomai, lo voleva esporre in un museo». La conferma arriva dagli amici di Filiberto, come Alessandro Santini, vicario della provincia di Lucca dell’Ordine di San Maurizio e Lazzaro, ieri tra i primi ad annunciare che «il nuovo Duca di Savoia e nuovo Capo della Casa Reale è il principe Emanuele Filiberto». E lo spiega Carmine Passalacqua, Cavaliere al Merito Civile di Casa Savoia, Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon e coordinatore dei monarchici alessandrini.
«L’Italia non è stata così magnanima con i Savoia. Hanno avuto il diritto di tornare in Italia e di essere eleggibili, ma non hanno mai potuto riavere quel tesoro, che è della Casata. Non hanno avuto il diritto di proprietà, infatti Vittorio Emanuele non possedeva neppure 5 metri quadrati intestato a lui in Italia». Sulla ricchezza dei Savoia restano misteri e segreti, e da Einaudi a De Gasperi non c’è stato presidente che non se ne sia imbattuto. L’unico leader vivente che ha visto i gioielli da vicino è stato Draghi nel 2006.