l'inchiesta
Emanuela Orlandi, chi era davvero "zio Mario": da sospettato a mediatore
I capelli corti, le labbra sottili, sempre a fianco di papà Ercole. «La mia bambina... Mi dica, sta bene?». La voce strozzata dello zio Mario, cioè di Mario Meneguzzi, al telefono, in quei giorni maledetti, quei giorni là, quelli del 1983, subito dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi, quando non si sa niente, quando sobbalzano tutti, al primo trillo, in quell’appartamento in piazzetta Sant’Egidio, a ridosso del palazzo Apostolico, a Roma. Perché dall’altro lato del filo ci potrebbero essere i rapitori, potrebbero dare novità sulla “ragazza con la fascetta”. È lui, è lo zio Mario, che risponde, fisicamente, per primo, a quelle chiamate. In almeno un’occasione si “spaccia” per papà Ercole: «Mi dica almeno come sta».
Stacco, come in un film (anche se questo non è un film, nonostante il tentativo di Netflix di farne una miniserie, è uno dei misteri più intricati, nascosti, impenetrabili della storia d’Italia): giorni nostri, 2023. Quarant’anni dopo. Meneguzzi non c’è più, è morto qualche anno fa. Però si riapre il caso di Emanuela, non tanto nelle aule della giustizia (anche se impegnati sul faldone ci sono sia la Santa Sede che la Camera dei deputati che vota l’istituzione di una commissione parlamentare per far luce sulla vicenda), quanto in quelle mediatiche. Ed eccolo lì, che riaffiora come uno scoglio, il nome di Mario Meneguzzi. Torna nel carteggio (riservato ma finito negli atti della prima inchiesta, segreto ma di cui oramai si sa praticamente tutto) tra l’allora segretario di Stato vaticano Agostino Casaroli e il confessore della famiglia Orlandi che agli inizi degli anni Ottanta presta servizio in Colombia, ossia in Sudamerica: il riferimento è a presunte molestie sessuali che avrebbe subito Natalina Orlandi, una delle sorelle di Emanuele, e che vedrebbero coinvolto proprio lo zio Mario. “Sono vere quelle accuse?”, chiede Casaroli. “Sì”, risponde il prete. “È stata la procura di Roma a sollecitare questa conferma”.
Allora la magistratura sa, allora non è la prima volta che il nome di Menguzzi fa capolino in questa inchiesta. No, non lo è. E infatti lui, Menguzzi, lo dice una, due, tutte le volte che glielo chiedono, gli inquirenti e gli investigatori: non-ero-neanche-a-Roma-quel-giorno. Era a Borgorose, aggiunge, e più precisamente nella frazionicina di Torano, che oggi fa meno di 700 abitanti, in provincia di Rieti: non dovrebbe essere complesso, in un posto così piccolo, trovare un riscontro. E forse quello. Oppure forse ci si mette papa Wojtyla che il 3 luglio di quel nerissimo 1983, neanche due settimane dopo la scomparsa di Emanuela, ufficializza per la prima volta l’ipotesi del sequestro. Lo fa pubblicamente, dalla finestra di San Pietro, di domenica, all’Angelus. E poi, in privato, alla presenza di pochi ma non conta, è pur sempre un pontefice, il papa che diventerà santo, Giovanni Paolo II, fa intendere che dietro ci potrebbe essere la pista del terrorismo. «Cari Orlandi», ribadisce la sera della viglia di Natale di quello stesso anno, uscendo dalla casa della famiglia, «voi sapete che esistono due tipi di terrorismo, uno nazionale e uno internazionale. La vostra vicenda è uncaso di terrorismo internazionale».
Tanto basta, dello zio Mario non si interessa (quasi) più nessuno. Non lo segue più nessuna macchina «con la targa coperta», come la definisce Giulio Gangi, un agente del Sisde (i servizi segreti) che si è preso una cotta per sua figlia Monica: sta guidando sul litorale romano, in quei primi mesi, Meneguzzi e capisce che ha qualcuno alle calcagna. Allora chiede aiuto e Gangi lo rassicura: una «targa coperta» è un nome in codice per un’auto della Squadra mobile. Un colpo di fortuna che, neanche un anno prima, la figlia abbia fatto entrare in famiglia quel ragazzotto un po’ timoroso, conosciuto in vacanza, che guarda il caso fa l’agente per i servizi segreti? Un altro colpo di fortuna che gli Orlando danno retta subito allo zio Mario quando suggerisce di nominare come avvocato Gennaro Egidio, pure lui una figura considerata vicino al Sisde? «Lo ritengo più adatto in questo genere di cose», si giustifica Meneguzzi: ma “quali cose” visto che di ufficiale non c’è nulla, di chiarito neanche? Il Corriere della Sera sostiene, oggi, che siano addirittura gli stessi rapitori a chiedere che sia lo zio Mario a tenere i rapporti sia con le autorità che con la stampa e che la prima telefonata di contatto non abbia squillato a casa Orlandi. Ma a quella Meneguzzi.