Il saggio

Il mondo globalizzato da libertà a gabbia: l'origine del vuoto contemporaneo

Corrado Ocone

Benedetto Croce diceva che ogni opera storiografica è contemporanea, intendendo dire che essa, anche quando è rivolta al più lontano passato, nasce da un bisogno concreto di chiarificazione che sorge nel presente. A maggior ragione questo canone ha vigore quando la contemporaneità concerne anche l’oggetto, cioè il periodo, di cui lo storico si occupa. La domanda da porsi è allora questa: è possibile scrivere, ad esempio, una storia degli ultimi quarant’anni che sia sì vissuta ma che conservi anche quel certo distacco che alla storiografia è comunque necessario? Problemi ancora così vivi, e che continuano a toccare le nostre corde più profonde, possono essere storicizzati in maniera attendibile?

Eugenio Capozzi, ordinario di Storia Contemporanea al Suor Orsola Benincasa di Napoli, si è provato nell’impresa (come d’altronde aveva fatto recentemente anche un altro storico italiano di vaglia, Massimo L. Salvadori). Ed è riuscito perfettamente. Il quadro che tratteggia e lo sfondo in cui inquadra gli avvenimenti sono convincenti, così come lo è la periodizzazione proposta: quello che va dalla fine della guerra fredda, con la caduta simbolica del Muro di Berlino nel 1989, fino alla “rivolta sovranista” del 2016 (Brexit più elezione di Trump) e oltre, sembra proprio costituire un tutto ben definibile come “periodo della globalizzazione”. Questo fenomeno, in effetti, in quello che comunque è arco di tempo stoticamente brevissimo, sembra essersi, con la sua ideologia, prima affermato, poi espanso per essere infine fortemente depotenziato e “superato” negli ultimi nni. Capozzi può così intitolare il suo libro: Storia del mondo post-occidentale. Cosa resta dell’età globale? (Rubbettino, pagine 182, euro 16).

LA SOVRASTRUTTURA
In esso l’autore non si limita a ripercorre gli eventi della storia politica e di quella economico-sociale di questi anni ma pone il centro della sua attenzione anche e soprattutto su quella che un tempo si chiamava “sovrastruttura”, cioè in concreto le mentalità dominanti, più o meno indotte, che hanno accompagnato nell’opinione pubblica gli anni della globalizzazione e quelli successivi della deglobalizzazione. Ciò è particolarmente importante, sia perché quelle mentalità, fra l’altro produttive di fatti concreti e reali, vivendo nel tempo della ipercomunicazione, si trasmettono da una parte all’altra del globo con rapidità impressionante; sia perché in qualche modo lo stesso capitalismo si è trasformato configurandosi infine come capitalismo cognitivo (persino “della sorveglianza”) piuttosto che materiale. Le mentalità dominanti in questi decenni sono anche rapidamente cambiate di segno. Il mutamento più evidente è quello che ha coinvolto proprio l’idea stessa di globalizzazione: presentata dapprima dalle élite politiche e intellettuali occidentali come una tendenziale “fine della storia”, cioè come il percorso verso un “ordine liberale” con una governance sovranazionale e l’egemonia di un’unica superpotenza, ma oggi radicalmente messa in discussione nei suoi stessi presupposti, in primo luogo l’ottimismo provvedenzialistico di marca illuminista fondato sull’idea di progresso.

LE CONSEGUENZE
All’ “utopia morbida” dell’ “illusione unipolare”, per usare le parole dell’autore, si è sostituita una sorta di scontento globale che non solo fa rinascere e dà spessore alle istanze localistiche e alle politiche nazionali e di reshoring ma delinea di fatto un ridimensionamento dell’Occidente (e soprattutto dell’Europa) e l’emergere di un mondo multipolare e “ad arcipelago”. Capozzi ripercorre con efficacia e rigore le tappe sia “culturali” sia materiali di questo processo: dalla secolarizzazione al “politicamente corretto”, dalla cultura woke all’ideologia decrescista, nel primo caso; dal terrorismo islamico all’emergere della Cina come leader mondiale, dalla crisi economica a quella pandemica, e fino alla guerra russo-ucraina, nel secondo. Non è dubbio però per lui che è la «contrapposizione non solo tra globalisti e sovranisti, ma tra (super) élite e “popolo”» la vera novità di questi anni. È essa infatti a ridesignare «la geografia sociale e politica, realizzando pienamente il cambiamento culturale che era stato prefigurato, già negli anni Novanta, dallo storico e sociologo statunitense Christopher Lasch». La particolarità e il pregio della storia di Capozzi, che la rende diversa da altre pur eccellenti, è che essa non si accontenta di liquidare con parole generiche l’emergere dei “populismi” e “sovranismi” (e quindi di politici come Trump o Bolsonaro). Cerca, piuttosto, di capire le ragioni profonde dello scontento e i bisogni reali e concreti che quell’emergere segnala.