A senso unico

Salone del libro, così la sinistra ha usato il salotto (non tanto buono) dell'ideologia

Luca Beatrice

Un matrimonio consanguineo tra Radio 3 e un centro sociale ha dato vita al Salone del libro di Torino e ai suoi tanti fratelli minori, i festival letterari come Mantova o Biennale Democrazia.

Questo lo stato della cultura italiana che sarà difficilissimo scalfire o cambiare, anche se questa volta l’impegno c’è. Personalmente detesto parlare di discriminazione, termine lagnoso abusato dalle categorie presunte deboli, però tanti episodi innescano una casistica e a ripercorrere la storia recente del Salone tocca ribadire la totale egemonia della sinistra nella costruzione del racconto, nella scelta di temi e ospiti, nell’organizzazione di spazi e dibattiti. Atteggiamento che è si radicalizzato proprio quando il Paese reale chiedeva altro.

Il primo episodio fu forse il più grave. Correva il 2008, quarto governo Berlusconi da poco insediato, Israele venne scelto come Nazione ospite, e conoscendo la grandezza di autori quali Oz, Yehoshua, Grossman e Nevo non avrebbe dovuto esserci alcun dubbio. E invece la sinistra radicale non ci stette e inscenò manifestazioni vergognose per le strade di Torino, tirandosi dietro il plauso di parecchi intellettuali filopalestinesi. I comunisti italiani parlarono di scelta vergognosa, ci fu addirittura un allarme bomba a mettere in allarme la questura mentre i cosiddetti antagonisti sfilarono indisturbati per la città.

Era quello il tempo del duo Picchioni–Ferrero, presidente e direttore del Salone, e nessuno ne avrebbe messo in discussione il potere. Rolando Picchioni, intelligentissimo democristiano maestro nell’arte del compromesso, accettò la mia proposta di curare un paio di incontri sulla cultura di destra in Italia, affidandomi una sala gratis e questo fece la differenza perché mentre l’editore che paga può invitare chi vuole a sue spese, nel programma culturale del Salone, quello a invito insomma, non c’è traccia di autori di destra che siano ospitati dall’organizzazione. Diktat: non si mettono soldi per chi non è di sinistra. Fu un evento in qualche modo eccezionale cui parteciparono tra gli altri Marcello Veneziani, Pietrangelo Buttafuoco, Alessandro Giuli, Stenio Solinas, Luigi Mascheroni e Angelo Crespi. Collocazione pomeridiana senza dar troppo nell’occhio e senza pubblicizzare oltremodo l’evento, già eravamo stati invitati e andava bene così. Con l’arrivo alla direzione di Nicola Lagioia, supportato da un komintern su posizioni da ultrà del pensiero post-marxista, i minimi spazi di dialogo si sono chiusi.

Un esempio? Paola Mastrocola mai più invitata in quanto sostenitrice di una scuola troppo conservatrice e contro le menate di certi educatori lassisti. Un’autrice che non faceva fatica a riempire una sala da 200 posti, depennata e mai più riammessa. Nel 2019 la polemica montò a più parti, quando il quotidiano la Repubblica si accorse che l’editore Altaforte presentava nel proprio stand la biografia di Matteo Salvini scritta da Chiara Giannini, collaboratrice de Il Giornale, scortata dalla digos per entrare al Lingotto.

Ministro dell’interno, ogni giorno nell’occhio del ciclone per la questione migranti, Salvini era sgradito anche in qualità di non ospite. Fu la miccia che accese Christian Raimo, consulente editoriale, che spulciando il programma pensò bene di affidare a un tweet il suo profondo pensiero: Massimo Fini, Buttafuoco, Francesco Borgonovo, Francesco Giubilei al Salone di Torino diffondevano pensieri razzisti, quindi non avrebbero dovuto esserci, una vera e propria lista di proscrizione antifascista fomentata da altri esponenti radicali quali i Wu Ming. 

Persino Lagioia rimandò le accuse al mittente e Raimo si dimise appena prima di essere cacciato, ma ormai il danno era stato fatto e da più parti si levò il coro: contro Salvini e i destrorsi si leggano tre dichiarazioni antifasciste prima di ogni presentazione. Su Altaforte e l’editore Francesco Polacchi, vicino a Casa Pound, le polemiche continuarono con la richiesta di esclusione, a fronte di un pericolosissimo precedente, perché il Salone è una manifestazione commerciale e chi paga ha diritto come gli altri. In passato avevano tranquillamente convissuto nello stesso padiglione AR la casa editrice di Franco Freda e Sensibili alle foglie, fondata da Renato Curcio nel 1990.

LA VERITÀ SIAMO NOI
Di come vanno le cose a Torino è sintomatica Biennale Democrazia (del Pd), la cui impostazione culturale è gemella del Salone. Nell’ottobre 2021 fu strombazzato il dibattito «Chi dice cancel culture» organizzato dal Salone stesso con la partecipazione di Marco Damilano, allora direttore de L’Espresso, la scrittrice Helena Janeczek e Adriano Ercolani de Il Fatto Quotidiano. Tutti e tre sulla stessa identica posizione, cancellare è giusto, censurare ancora di più in nome del politicamente corretto. Nessun parere contrario era stato previsto, se la cantarono e suonarono da soli, facendo passare il consueto messaggio: la verità è quella che vogliamo noi, non ne esiste nessun’altra. 

Sono solo alcuni degli esempi tra i tanti che spiegano come si costruisce un meccanismo di diffusione culturale di massa, quali sistemi persuasivi vengano usati e che spazio si possa riservare a chi la pensa in modo diverso. Sarebbe sufficiente sgombrare il campo da un equivoco: la cultura non è indipendente dalla politica ma è un fatto politico, visto che la sinistra lo mette in pratica da decenni. Cambiare questo sistema sarà più difficile che vincere cinque elezioni di fila, non provarci sarebbe però l’ennesimo atto di grave rinuncia culturale.