Nomi dei pesci in dialetto

Francesco Specchia

A Trieste una multa salatissima è stata comminata a un pescivendolo ambulante che ha esposto cartelli con i nomi dei pesci in dialetto e non in italiano. La Capitaneria di Porto ha multato l’uomo con una sanzione di 1.167 euro. Anziché alici, il pescivendolo aveva scritto “sardoni”, al posto delle vongole, c’erano i “caperozzoli”: la Capitaneria di Porto è intervenuta, a tutela – motivazione ufficiale – del consumatore, come precisa Felice Tedone, vice comandante della Capitaneria di Porto: «è una norma a tutela del consumatore, è più onesto scrivere il nome in italiano, in quanto garantisce la chiarezza delle indicazioni anche all’acquirente non triestino. E poi non è vero che siamo così fiscali, ai rivenditori costa poco scrivere il termine corretto e nessuno vieta di riportare tra parentesi anche il termine locale». «Quel giorno – ammette Guido Doz, presidente regionale di Agci pesca, e titolare con fratello Michele della rivendita – abbiamo preparato in velocità il banco e abbiamo sbagliato perché la normativa ci obbliga ad usare per le indicazioni commerciali i nomi dei pesci in lingua italiana. Però la tolleranza da parte della Capitaneria è pari a zero». Gli fa eco Mario Bussani, presidente della Federazione italiana maricoltori Ong: «La fiscalità che c’è a Trieste non c’è in nessun altra città, non esiste in tutta Italia una contestazione per l’utilizzo del nome locale di un pesce». Intanto i 1.167 euro di multa sono stati pagati: «ho scritto una lettera agli organi competenti – spiega Doz - affinché nella lista da usare vengano incluse anche le denominazioni usate a livello locale e regionale. In fondo, se il fine è quello di tutelare il consumatore il termine sardone per i triestini è più chiaro di alice”. In effetti, tra i banchi delle pescherie venete si nota che molte pescherie, pur rispettando la norma, aggiungono nel cartello anche il nome dialettale: «scrivo “sepiole” invece che “zottoli”, “cozze” e non “pedoci” o “cefalo” al posto di “szievolo”. Risolvo mettendo il nome locale tra virgolette, però nessuno mi può vietare di pubblicizzare che nella mia pescheria si trovano “sardoni barcolani”o “riboni”. Questo senza indicare il prezzo, ma solo avvertendo la clientela che nella mia rivendita in quella determinata giornata si trova quel tipo di pesce» spiega Alessandro Carbone della pescheria di via Coroneo. Qualche acquirente, tra l’altro, chiede chiarimenti: «La me scusi? Ma el “ghiotto” che pese xe? Tipo “guato”?» chiede una signora al pescivendolo. Infatti, come sottolinea Bussani: «Così per tutelare un milanese facciamo torto alla nostra vecchietta che mi chiede chi è “alice” o cosa è un “ merlano”, ma la Capitaneria è l’ultimo anello della catena, a loro va contestata solo la fiscalità nell’applicazione. Il vero colpevole di questa buffonata è la commissione che ha partorito una lista lontana dalle esigenze dei consumatori e che non contempla il nome in vernacolo delle regioni dell’Alto Adriatico». In difesa del pescivendolo triestino, è sceso in campo il Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Luca Zaia, che ha scritto in dialetto veneto una lettera, in cui spiega: «ci sono tante cose di quest’Europa che mi fanno arrabbiare e ieri ne ho scoperta un’altra: se vendi il pesce e scrivi il nome in dialetto sul tuo bancone ti danno la multa».