La disgrazia

Funivia Stresa Mottarone, in ditta tutti sapevano: un'intera squadra di operai silenti

Francesco Specchia

VERBANIA - Il silenzio qui non è solo sgradevole omertà, è complice stesso della tragedia. C’era almeno “un’intera squadra di operai” silenti che faceva viaggiare quella maledetta cabina senza freni, col “forchettone” bellamente inserito sin dal 26 aprile sulla funivia Stresa-Mottarone. 

In attesa della bomba giudiziaria -probabilmente una nuova raffica di avvisi di garanzia-, sfuggendo all’attenzione di orde di cronisti, negli uffici claustrali della Procura di Verbania in queste ore si procede ad interrogatori estenuanti dei dipendenti delle Ferrovie del Mottarone. Nell’attesa dell’interrogatorio di garanzia dei tre (finora) arrestati Luigi Nerini, Gabriele Tadini e Enrico Perocchio, sono stati dunque sentiti, tra la mattina a tardo pomeriggio di ieri, come “persone informate dei fatti” alcuni dei lavoratori del Nerini. Tutta gente che aveva assistito, o addirittura aveva collaborato alla manipolazione del sistema di frenaggio. Si parla di almeno sei addetti. Il capitano dei carabinieri Luca Geminale afferma: “Un’intera squadra di operai ha fatto funzionare la funivia con questo bypass. Difficile dire al momento quanti siano e chi siano ma di certo non è un sistema che si può far funzionare con una persona sola”. Ed è vero, in parte. In realtà i nomi degli “attenzionati” in odore di imputazione si conoscono bene, ma sono sapientemente occultati dagli inquirenti alla libera stampa. Eppure, a Stresa dicono che tutti, lì in ditta, sapevano cosa stava accadendo attorno a quel cavo d’acciaio privato delle elementari cautele di sicurezza in nome del fatturato selvaggio. “Tutti i lavoratori sono parsi molto sotto pressione per la situazione che stavano vivendo” ti butta là il comandante provinciale dell’Arma di Verbania, Alberto Cicognani. Ed è vero, del tutto. Lì dentro, nelle Ferrovie, pochi hanno la coscienza pulita: c’è chi ha visto la manomissione e non ha parlato, chi ha eseguito ordini voltando lo sguardo; chi temeva la vendetta del capo e di perdere il posto; chi non denunciava per paura che l’azienda, già duramente provata dal Covid, potesse chiudere. L’espediente del forchettone che impediva alla cabina di fermarsi diventa oggi un forcipe delle cattive coscienze.

Chi almeno dimostra di aver un barlume di dignità è il responsabile dell’impianto, Tadini. E’ lui l’uomo che annotò il falso “nel registro giornale” parlando di “esito positivo dei controlli” sul funzionamento dei freni, sia il 22 che il 23 maggio, giorno della tragedia, malgrado avesse “sentito provenire dalla cabina un rumore-suono caratteristico riconducibile alla presumibile perdita di pressione del sistema frenante della cabina che si ripeteva ogni due-tre minuti”. Tadini, in cella è diventato un timorato di Dio. Piange, si rammarica, è pentito, si sente totalmente nelle mani dell’Onnipotente. “Ho corso il rischio ma l’ultima cosa al mondo che pensavo è che si potesse rompere il cavo traente”, avrebbe detto in carcere in un colloquio col suo legale Marcello Perillo che comunque chiederà i domiciliari per il cliente. Tadini probabilmente presenterà la sua confessione oggi al Gip.

Diverso è l’atteggiamento del Nerini, il padrone delle ferriere e del consulente Perocchio dipendente della Leitner. Entrambi negano le accuse. Il primo, attraverso il suo avvocato Pasquale Pantano, sostiene di non avere mai avallato il blocco dei freni, tanto è vero che afferma di essere salito lì sopra con i figli; e rifugge il movente economico (anche se la sua situazione patrimoniale non è esempio di floridezza, diciamo). Il secondo afferma di vivere l’incubo kafkiano di chi si mette a disposizione della magistratura e finisce in galera. Nessuno di loro uscirà presto dal carcere; perché, per la Procura, “hanno agito in spregio della vita dei passeggeri”; e, continuando a lavorare in questo settore, potrebbero rimettere in pericolo la sicurezza pubblica e quindi reiterare il reato. Fattispecie che lascia dei dubbi in Alberto De Sanctis, presidente della Camera penale del Piemonte; il quale sostiene che il fermo sia funzionale al pericolo di fuga, “ma utilizzarlo per un reato colposo, su soggetti che hanno famiglia e risorse sul territorio, mi pare una interpretazione singolare”. Ma è tra i pochissimi, sulle rive del Lago, a pensarla così…