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Silvio Garattini sul vaccino: "In Italia siamo parassiti scientifici, dobbiamo produrre il siero in autonomia"
È tutto giusto, ma è anche tutto da rifare, parafrasando Gino Bartali. Il fondatore e presidente dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, Silvio Garattini, regala al governo dei migliori un'appassionata, spietata e lucida diagnosi sulla sanità italiana, maturata anche grazie alle riflessioni sulle crepe che la pandemia ha evidenziato. "Il futuro della nostra salute - Il Servizio Sanitario Nazionale che dobbiamo sognare", il libro (Edizioni San Paolo) appena uscito firmato da uno degli scienziati più importanti d'Italia, è anche un testamento professionale. Non si limita all'analisi, ma fornisce la terapia, con l'entusiasmo di un medico che inizia la professione e l'esperienza di un monumento della medicina che a novembre compirà 93 anni. Garattini è consapevole di lanciare una sfida quasi impossibile, «perché troppi sono gli interessi in gioco, economici e politici», che spingono per lasciare le cose come stanno, tant' è che la battezza «un sogno», però ritiene la sua cura indispensabile per fermare «il lento ma continuo declino che il Servizio Sanitario Nazionale ha subito negli ultimi anni, con miliardi di euro sprecati che hanno richiesto ai cittadini di mettere mano al portafogli e sobbarcarsi spese aggiuntive». Per cambiare i fatti occorre prima di tutto mutare testa; e infatti Garattini auspica due rivoluzioni, «la prima culturale, la più difficile e a lunga scadenza, la seconda, conseguente, strutturale è organizzativa».
Professore, cosa la preoccupa maggiormente della Sanità italiana?
«La perdita dei fondamentali: la medicina, e soprattutto i medicinali, hanno preso il sopravvento sulla scienza e il consumismo prevale sulla razionalità. Per questo curiamo anziché prevenire, con grande spreco di risorse economiche e minor possibilità di successo. Il medico è in conflitto d'interessi perché la terapia offre margini di guadagno mentre la prevenzione li sottrae».
Cosa intende per prevenzione?
«Un'attività di informazione corretta, da parte dei medici e dello Stato, che porti a uno stile di vita sano. Dopo i 65 anni il corpo inizia a presentare il conto di quello che si è fatto prima e si scopre che il 50% delle malattie tipo diabete e insufficienze respiratorie, cardiache e renali evitabili e ce le siamo procurate da soli nel tempo. Il 70% dei tumori sarebbe evitabile al netto di fumo alcol e obesità».
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Queste cose però, pur approssimativamente, la gente le sa
«La nostra è una cultura umanistica, ma la rivoluzione deve partire dai banchi di scuola. La scienza è vista certo con interesse, tuttavia non è percepita come una componente fondamentale della cultura moderna. Tuttora chi sbaglia una citazione in latino viene criticato più di chi confonde vene e arterie. Nelle pagine dei giornali dedicate alla cultura c'è tanta letteratura ma pochissima scienza».
È il concetto della semina, per costruire fin da giovani futuri pazienti consapevoli?
«Sì, ma bisogna cambiare metodologia di semina anche nelle facoltà di Medicina. Il mercato dei farmaci opprime il sistema e condiziona le università: l'insegnamento della prevenzione ai futuri dottori non è una priorità, lo si vede dal fatto che esistono medici grassi, che fumano, che conducono una vita non sana».
Si predica bene ma si razzola male?
«Non si predica neppure. Nelle nostre aule siamo fermi alle lezioni frontali, la scuola di medicina è solo teorica, priva di coinvolgimento attivo degli studenti, che così non imparano a lavorare in gruppo. Non si insegna neppure il rapporto con il paziente. Oggi un medico che si laurea esce dall'università senza punti di riferimento. La scienza corre e quello che ha imparato ha una breve vita, il medico deve continuare ad aggiornarsi, ma chi gli ha fornito i punti di riferimento? E poi, se non ha imparato a lavorare in gruppo, tenderà a curare da solo, unicamente sulla tua esperienza, senza confronto, perdendo tempo e denaro pubblico».
Ha una soluzione?
«Il Covid ha evidenziato l'importanza di una visione comune nell'affrontare i problemi da parte del Servizio Sanitario. È fondamentale realizzare una Scuola Superiore di Sanità che formi i dirigenti sanitari. Oggi la salute pubblica è in mano a troppe persone che di medicina non capiscono nulla. La cura della pandemia è stata trattata addirittura come un caso politico anziché sanitario».
Quali altre patologie del sistema ha evidenziato la pandemia?
«L'Italia ha dimostrato la sua arretratezza nella ricerca. Siamo dei parassiti scientifici, viviamo delle scoperte altrui, in violazione dell'accordo di Lisbona, che ci obbligherebbe a destinare il 3% del Pil alla ricerca. Ebbene, noi spendiamo per la scienza 22 miliardi l'anno, contro i 44 di Londra, i 49 di Parigi e gli 87 della Germania. Poi non ci possiamo sorprendere se i vaccini li scoprono altrove e noi ci dobbiamo mettere in coda. Moderna e Pfizer sono americane, ma lei sa che gli Stati Uniti spendono 353 miliardi l'anno in ricerca? Parametrata alla popolazione, è una cifra sedici volte superiore a quella dell'Italia».
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L'insufficiente approvvigionamento di vaccini non è stata colpa soprattutto dell'Unione Europea?
«L'Europa e l'Italia si sono mosse in ritardo. Da un anno si sapeva che le multinazionali del farmaco stavano lavorando al vaccino anti-Covid e che lo avrebbero sfornato in tempi rapidi. Serviva un'organizzazione governativa e centralizzata che monitorasse cosa stava succedendo. Altri Paesi hanno provveduto, e adesso stanno meglio, noi no. Noi ci vantiamo del nostro servizio pubblico e biasimiamo le degenerazioni privatistiche della sanità americana, ma forse i cittadini non sanno che Moderna è un prodotto realizzato con la collaborazione del National Institute of Health, una struttura pubblica».
I vaccini sono la Caporetto della Ue?
«L'Europa si è mossa con grande ritardo, tant' è che la presidente Van der Leyen si è dovuta scusare. Ma come si fa a parlare d'Europa? Tutti sanno che non esiste la Ue come entità in grado di prendere decisioni rapide».
Sulla profilassi ha vinto la logica sovranista del chi fa da sé fa per tre?
«Se si pensa a Israele, o agli Usa, o alla Serbia che ha vaccinato il 15% della popolazione e all'Inghilterra post Brexit che è già sopra il 25%, si può dire che gli Stati si sono presi una rivincita sull'Unione, ma questa non è una bella notizia».
È colpa della Ue o dell'Italia?
«L'Italia si è fidata troppo della Ue, non si è messa in condizioni di entrare in contatto con chi ci poteva fornire i vaccini e oggi si trova in difficoltà. Altri Paesi lo hanno fatto».
Avremmo dovuto produrre noi in Italia i vaccini?
«Per produrli devi prima trovarli, e per trovarli ti serve la ricerca. I nostri ricercatori sono eccellenti, ma sono mal pagati e quindi vanno all'estero. La ricerca medica italiana ha un addetto ogni due rispetto a Germania, Gran Bretagna o Francia. Si è convinti da noi che la ricerca siano soldi buttati, invece sono guadagnati, perché la ricerca è un antidoto alla degenerazione del mercato, che adotta il modello consumistico dei farmaci anziché fare riferimento alla centralità della salute».
È un gatto che si morde la coda: il mancato finanziamento della ricerca produce maggiori spese sanitarie?
«Il mercato dei farmaci in Italia cuba 30 miliardi l'anno, il 76% a carico del Servizio Sanitario Nazionale, che così spende il 20% delle risorse che ha a disposizione».
Adesso si parla di produrre il vaccino in Italia: è favorevole?
«In Germania ci sono due stabilimenti in grado di produrre il vaccino Pfizer. La Francia sta convertendo lo stabilimento Sanofi-Pasteur. Anche noi dovremmo iniziare a darci da fare perché il Covid non è un problema che si risolverà presto. Il mondo è globalizzato e con la pandemia dovremmo convivere anni. Il virus, come visto, si modifica e i vaccini che stiamo preparando adesso potrebbero rivelarsi inefficaci per contrastare alcune varianti. Funziona come l'influenza, ogni anno ti serve un nuovo ritrovato. Lo Stato deve produrre i vaccini o appoggiarsi direttamente a industrie private perché non sappiamo cosa accadrà e l'Italia non può continuare a mettere in mano ad altri le vite dei suoi cittadini».
Professore, la pandemia ha anche messo in crisi il rapporto tra Stato e Regioni, titolari della Salute
«Capitolo complesso. Innanzitutto bisogna dire che le Regioni sono troppe e troppo eterogenee. La Lombardia ha più di dieci milioni di abitanti, il Molise ne ha 300mila. Meglio sarebbe avere dodici distretti sanitari con un bacino ciascuno di cinque milioni di potenziali pazienti».
Lei vuole davvero scatenare una rivoluzione?
«Tagliare le Regioni significa intanto risparmiare molto personale burocratico, quindi tagliare le spese».
Chi deve tenere i cordoni della borsa?
«La chiave è destatalizzare il Sistema Sanitario Nazionale, staccarlo dalla Pubblica Amministrazione e dalle sue logiche. L'ideale sarebbe creare una Fondazione ispirata a regole e principi d'efficienza tipici della aziende private ma libera dall'obbligo di perseguire il profitto. Sotto di essa, le Regioni dovrebbero avere un budget da gestire seguendo criteri nazionali. Fondamentale è l'attività di controllo, che però non va esercitata prima, come oggi, perché in quella fase diventa paralizzante, bensì a posteriori, sanzionando i comportamenti sbagliati».
Cosa intende per destatalizzare il Servizio Sanitario?
«Sottrarlo alle leggi e procedure che lo rendono inefficace e lento, quando invece dev' essere duttile e rapido».
Lei critica anche l'Agenzia del Farmaco: cosa non la convince?
«Sono 27 anni che non viene realizzata una revisione sistematica del Prontuario per eliminare farmaci inutili o rivedere i prezzi. I costi oggi sono una Babele, con medicine uguali a prezzi molto diversi. L'Aifa dovrebbe esercitare un maggior controllo sulle case farmaceutiche anziché subirle come oggi. Capita che gli ultimi farmaci arrivati non siano migliori dei precedenti, costano solo di più. L'Aifa è di manica troppo larga, spesso approva farmaci senza considerare l'impatto che hanno sulla qualità della vita».
Come si può fare ordine?
«Secondo la legislazione europea un farmaco viene approvato sulla base di tre caratteristiche: qualità, efficacia e sicurezza. Questo però non ci dice se esso è meglio o peggio di quelli già esistenti. Si dovrebbe inserire come parametro anche il valore terapeutico aggiunto che un nuovo farmaco deve portare per essere approvato. E poi bisogna dire che i farmaci equivalenti per i quali è scaduto il brevetto hanno i medesimi effetti di quelli originari, che sono solo più cari».
Un altro nervo scoperto evidenziato dall'epidemia è quello dei medici del territorio: sono eroi abbandonati?
«La medicina oggi si è complicata e il medico libero professionista non ha più senso. I colleghi di medicina generale dovrebbero essere dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale e lavorare insieme in poliambulatori, con una segretaria, degli infermieri e strutture adeguate, in modo da relazionarsi con i colleghi anche a finalità terapeutiche».
Dei centri di salute composti da più dottori di medicina generale?
«Sì, che possono fare anche piccoli interventi ed esami di routine, in modo da non intasare i pronto soccorsi e gli ospedali».
I pronto soccorso in effetti ormai sono alla paralisi
«E spesso vi si gioca la vita o la morte del paziente. Dovrebbero essere il punto d'arrivo della carriera, con i medici più esperti, non quello di partenza. Ma per farli funzionare servono filtri d'accesso e banche dati».
Lei martella sull'informazione, perché?
«Perché è fondamentale, per il paziente e il medico. Oggi se c'è un errore terapeutico, medici e strutture ospedaliere tendono a nasconderlo, per evitare guai. Invece andrebbe comunicato, per non ripeterlo. Pensi alla pandemia: quanti errori terapeutici sono stati fatti data la mancanza di conoscenza, causando decessi evitabili».
Sul Covid c'è stato un eccesso di comunicazione da parte dei medici?
«Sarebbe stato opportuno parlare con una sola voce, come hanno fatto altrove. Molte cose giuste sono state mal interpretate perché sono andate in televisione persone non abituate a comunicare. Ma sull'informazione medica trovo che la cosa più grave, direi inaccettabile, è che essa venga fatta quasi esclusivamente dalle case farmaceutiche, sia presso il pubblico che presso i medici. Di fatto l'informazione sanitaria in Italia non è indipendente. Per esserlo, dovrebbe correre su un canale preferenziale, da medico a medico, senza informatori commerciali».
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