Milano è un cantiere
Questo è un pezzo molto demagogico. Non si interroga sugli scenari politici che scomporranno e ricomporrano il risiko del potere lombardo per le Regionali 2010, non riflette sulla bontà degli investimenti infrastrutturali del già epico Expo 2015, non individua soluzioni miracolistiche per uscire dalla recessione e neppure inzuppa il biscotto nel gossippismo da sciampiste che tanto tono dà al miglior giornalismo nazionale. Parla solo dei cantieri della città di Milano - pensa un po’ che noia - e di quanto sia avvilente constatare, per l’ennesima volta, che esistono interi pezzi di città stravolti da anni senza che nessuno faccia nulla e senza che si possa neppure ipotizzare una data limite per la chiusura dei lavori. Il vuoto pneumatico della politica, senza aver bisogno di scomodare i convegnoni di Micromega, sta tutto qua. E, una volta tanto, non è questione di schieramenti, ma di semplice rispetto per i cittadini milanesi a prescindere dal loro orientamento politico. È un golgota viabilistico: Darsena, Sant’Ambrogio, via Ampere, piazza XXV Aprile, piazza Novelli, il prolungamento della linea gialla del metrò fino alla Comasina, giusto per ricordare solo i casi più eclatanti. Una lunga sfilata di cantieri talmente invasivi e talmente infiniti da essere ormai diventati parte del paesaggio urbano milanese. Tutti lavori che avrebbero dovuto già essere finiti o a un passo dalla conclusione e che invece restano lì, anime morte, lasciando come eredità pezzi di quartiere sventrati, abitazioni assediate dalle recinzioni, negozi isolati dal mondo, viabilità nel caos. E la cosa peggiore, contrariamente a quanto ci si potesse aspettare, è che intorno alla vicenda non regna un assordante silenzio, indotto dalla coda di paglia o perlomeno da un pizzico di vergogna. Magari. Qui parlano tutti. Anzi, tendono a straparlare seguendo un canovaccio che ricorda molto più il trito dopolavorismo capitolino che il rinomato efficientismo milanese e secondo il quale è comunque sempre colpa di qualcun altro. C’è sempre una ditta di mascalzoni, degli ecologisti con l’uzzolo del ricorso a prescindere, il Tar che blocca, il Consiglio di Stato che sblocca, un pretore che riblocca e un assessore che è colpa di un mio collega di giunta e un altro che non è di mia competenza e un sindaco che d’altra parte è partito tutto con quello che c’era prima e quello che c’era prima che se mi avessero ascoltato non sarebbe finita così e i fondi che mancano e il governo romano che pensa alla Sicilia e affossa la Lombardia e il federalismo fiscale che quello sì che è una bella roba e che ci toglierà tutti quanti dai guai e bla bla bla... E il vero dramma è che, probabilmente, hanno ragione un po’ tutti e che, in una repubblica come la nostra dove il codice di Giustiniano trascolora velocemente nel latinorum da scuola serale, ogni ricorso ha una sua parte di verità e ogni cavillo una sua pezza d’appoggio. E di solito quando tutti hanno ragione e nessuno decide, alla fine l’unico che paga è il cittadino. Che è la solita morale di tutte le articolesse indignate e populiste (come questa), ma che, in fondo, forse è anche un po’ vera. Anche perché al cittadino milanese non importa nulla di pandette e codicilli, ma solo di avere la certezza che se uno scavo si fa, lo si deve fare in fretta, senza rovinare le attività imprenditoriali della zona e senza far impazzire i residenti decimandogli il valore di mercato delle loro abitazioni. E perché se dai terrazzi dei palazzi molto trendy della Darsena penzolano ormai da mesi intere lenzuolate stile Napoli contro le pantegane e i cani morti del Naviglio, forse qualche domanda i nostri amministratori dovrebbero porsela. Se è vero che la “ricorso-crazia” italiana blocca tutto appena si tocca una sola pietra, è però compito della politica sciogliere quei nodi. È lì per quello. Non per altro. Solo per quello. Trovi i modi, faccia le leggi, imponga le riforme, paghi le penali, se è lecito e possibile. Insomma, faccia quello che deve. E il “come” sono affari suoi. Quella è la missione, la priorità, il dovere della politica in una città come Milano. Non certo quella di accampare scuse, accusare terzi o quarti e tirare a campare. Non è possibile millantare qualità della vita da grande metropoli europea e cosmopolita per poi rifilare degli standard da Metaponto ai propri amministrati. Anche perché magari arriva pure il giorno che quelli si stufano. Diego Minonzio