La testimonianza

Cesare Casella racconta gli anni del suo sequestro: "I giornali mi hanno tenuto in vita"

Davide Locano

Un enorme e vorace buco nero che lo ha inghiottito all’improvviso e trattenuto per ben 743 interminabili giorni, questo rappresenta il periodo che va dal 18 gennaio 1988 al 30 gennaio 1990 per Cesare Casella, 48 anni, sequestrato appena diciottenne a Pavia da un commando di uomini armati ed incappucciati, mentre rientrava a casa in una serata di nebbia, e condotto negli impenetrabili boschi dell’Aspromonte per essere sepolto vivo all’interno di un fosso con caviglie e collo incatenati senza tregua. Per il resto del mondo, invece, quel buco nero rappresenta uno dei più lunghi sequestri di persona a scopo di estorsione mai avvenuto in Italia. I mandanti non sono mai stati trovati. “Si tratta del reato più vile e più crudele che si possa commettere, peggiore persino dell’omicidio dove, se non altro, la violenza si consuma in pochi attimi”, osserva Casella, che trascorse le prime due settimane dal rapimento in una macchina, all’interno di un box, in compagnia di alcuni banditi, prima di essere trasferito mediante un camion in Calabria per essere rinchiuso dentro una tana di 2 o 3 metri quadrati, scavata sotto un maestoso albero al quale erano state assicurate le catene. Davanti a noi c’è un uomo sereno, imperturbabile. Su di lui nessuna traccia di questo lungo passaggio negli inferi. E davanti al suo sorriso si dispiega la forza di cui è capace l’animo umano, che non si può imprigionare, costringere, annientare. Casella ride: “No, non ho la sensazione che mi sia stato tolto qualcosa. Oggi mi sento arricchito da questa esperienza, anzi privilegiato. Davanti a qualsiasi tipo di difficoltà mi sono sempre ripetuto che, se sono uscito bene da quella situazione, posso superare qualsiasi ostacolo”. Allora ci accorgiamo che un segno di questa tragedia è rimasto indelebilmente inciso su quest’uomo: i suoi sequestratori hanno reso Casella duttile ed indistruttibile. Ed è questa la capacità suprema dell’essere umano: volgere in bene tutto ciò che di malvagio gli riservino la vita ed il mondo, popolato anche di gente priva di scrupoli. Si tratta forse dell’unico modo che abbiamo a disposizione per combattere e vincere il male: trasformarlo, trasformarci. È una sorta di legge darwiniana: si fa per sopravvivere. Perché, se per un solo attimo ti lasci andare, sei fottuto. Diventa insopportabile tutto: l’attesa, il non sapere, lo scorrere pigro di ogni secondo, l’estate, l’inverno, il caldo, il freddo, il giorno, la notte, i topi, le serpi, gli insetti, i vermi, gli animali selvatici, i cinghiali che fanno irruzione nella buca in qui vivi, quegli uomini con il passamontagna che arrivano quando gli pare per lasciarti qualcosa da mangiare, ma non ti dicono mai quando metteranno fine a quell’incubo. “Non ti uccideremo”, ti rassicurano. Ma che valore ha la parola di chi è capace di sradicare un uomo dalla sua vita per imprigionarlo e venderlo? Pesano come macigni sulle spalle tutte le domande che restano anche oggi senza risposta. Come ieri. Come domani. E la mamma chissà come starà? E papà? E Carlo? E i miei amici? Li rivedrò? Morirò qui? Oggi verrò giustiziato? E poi silenzio. E ancora silenzio. Interrotto dal rumore delle foglie calpestate da passi giganti: felicità e sgomento. Che diritto hanno gli uomini di rubare la vita ad altri uomini? Di impossessarsene? Di buttarla in fondo ad una buca? Di ridurre un ragazzo alla stregua di una merce di scambio proposta in vendita a chi non può proprio farne a meno, a coloro che Cesare lo amano. E pagheranno, certo, certo che pagheranno, darebbero tutto, la vita stessa, per Cesare. La famiglia paga il primo riscatto. Ma Cesare non torna a casa. Viene rimesso in vendita. “Non ho mai pianto di dolore, ma questo non è un merito. Ero quasi anestetizzato. Mi ero adeguato al ruolo della “cosa”, dell’oggetto, cercavo di restare freddo. Però qualche volta ho pianto di rabbia. La rabbia mi nasceva nello stomaco e mi esplodeva negli occhi. Soprattutto in estate. I miei coetanei erano al mare felici ed io sepolto chissà dove. Io ero escluso, non potevo partecipare alla vita. La vita era lontanissima da me, irraggiungibile, io non sapevo come arrivarci”, confessa Casella, che traeva sollievo dalla lettura dei giornali, opportunamente epurati dai suoi sequestratori da qualsiasi tipo di informazione che lo riguardasse. “Quotidiani, settimanali, riviste, mi facevano compagnia e costituivano per me il mio unico bene. Conservavo gelosamente quelle pagine sotto il mio giaciglio, disposte in ordine cronologico. Quando finivo di leggerle, se non mi veniva consegnato altro, ricominciavo. Questo era il mio unico contatto con la realtà, con quel mondo esterno al quale mi sentivo non appartenere più. A volte sfuggivano al setaccio dei controllori gli articoli di Feltri, o di altri giornalisti, che si occupavano del mio sequestro. Allora capivo che tante persone si stavano battendo per la mia liberazione. Mi sentivo meno solo”, racconta Casella. Questa è anche la storia di una madre che si è battuta con tutte le forze per potere riabbracciare suo figlio, perseguitata notte e giorno per 25 mesi dal terrore di sapere Cesare da solo e in difficoltà. “Mamma Coraggio”, così fu soprannominata dai media Angela, che scese in Calabria per sensibilizzare l’opinione pubblica e sfidare l’omertà, arrivando persino ad incatenarsi e a dormire in tenda, per mostrare la condizione in cui si trovava suo figlio. Martedì 30 gennaio del 1990 Casella viene abbandonato nei pressi di un torrente: è libero. “Fu repentino il passaggio dalla solitudine alla moltitudine di gente entusiasta per la mia liberazione. Mi accorsi presto che in quei due anni ero diventato una specie di star. Allo stadio sedevo accanto a Berlusconi, o Andreotti. Ero disorientato da quello che stava accadendo”, ricorda Casella. “Oggi sono papà, mia figlia è la mia gioia più grande. Cerco di godere in pieno di ogni istante e di essere grato per ciò che ho. Mi fido degli altri. Il nemico non è mai fuori, ma risiede in quella attitudine alla lamentela che a volte si impadronisce di noi, rendendoci incapaci di vedere quanto sia straordinaria la vita”, conclude l’imprenditore. di Azzurra Barbuto