Percorso vita

La onlus che aiuta gli immigrati a tornare nel loro Paese

Cristina Agostini

«Voglio tornare nel mio Paese. Sono stanco, qui non ho trovato quello che cercavo, e i miei genitori in Africa hanno bisogno di me». A pronunciare queste parole, cariche di nostalgia e dolore, è Amoako Kwadwo, 19enne originario del Gambia. Che, dopo due anni a Padova, ha scelto di fare ritorno nella sua terra. Un desiderio realizzato grazie al supporto della onlus Percorso Vita, che l' ha inserito nel "Programma di rientro volontario assistito" del ministero dell' Interno. Grazie a fondi europei veicolati dal Viminale, il giovane ha ricevuto un contributo per il viaggio e 1.800 euro (1.400 dell' Unione Europea, 400 erogati dalla onlus e dal ministero) per acquistare cinque mucche, avviare un allevamento nel suo villaggio e sostenere i costi dell' affitto della sua abitazione. A raccontarne la sua epopea è il Gazzettino. Il peregrinare del ragazzo verso l' Italia è durato 24 mesi: dopo una lunga traversata del deserto, Kwadwo ha fatto i conti con la dura esperienza del carcere libico. Infine lo sbarco a Lampedusa e l' arrivo a Padova. Molto presto il giovane si è però reso conto che il suo futuro non stava andando nella direzione che gli era stata prospettata. Altro che "ricco Occidente": per mesi ha sbarcato il lunario raccogliendo patate per due aziende agricole della zona, «un lavoro durissimo, e i soldi che ho visto sono stati ben pochi». VICENDE SIMILI E le storie simili a quella di Kwadwo sono tante. Storie di delusione e sfruttamento, disoccupazione e vita ai margini, col rischio di finire nelle maglie delle organizzazioni criminali. A raccontarcele è don Luca Favarin, presidente della onlus Percorso Vita: «Noi crediamo che la vera distinzione da fare non sia quella, fuorviante, tra migranti economici e profughi, bensì tra extracomunitari che arrivano in Italia con la voglia di integrarsi e persone che per diversi motivi fanno altre scelte». Ad oggi le nove strutture del padovano legate alla onlus ospitano 140 migranti, la maggior parte di loro ha un contratto di lavoro a tempo determinato. Molti di essi sono impiegati in due ristoranti della zona. «Queste persone vanno inserite in un percorso che prevede l' insegnamento dell' italiano ed esperienze di lavoro. Valutando i singoli casi, siamo noi stessi a chiedere ai ragazzi se quello che stanno facendo li soddisfa o se passano le giornate a fare niente». Nel secondo caso si procede con il rimpatrio volontario, offrendo ai migranti un aiuto concreto per sostenersi nei loro Paesi di provenienza. «È molto frequente che i ragazzi pensino a fare ritorno in Africa» rivela Favarin. D' altro canto, è là che custodiscono gli affetti più cari e le loro radici. Due settimane fa, per esempio, a lasciare l' Italia e stato un ragazzo della Nigeria. Era stato spinto ad allontanarsi dal suo Paese di origine perché suo padre era entrato in contrasto con un politico influente, questioni legate al possesso di terreni. Morto il genitore, la minaccia è venuta meno e - grazie al Programma di rimpatrio assistito - il giovane ha avuto la possibilità di aprire un piccolo negozio di generi alimentari nel suo villaggio, ubicato nell' Edo State (Nigeria meridionale). Una dinamica da tenere in considerazione è quella innescata dalla piaga del caporalato, presente anche in Veneto: decine di migranti vengono prelevati nottetempo dalle comunità e spinti a lavorare senza alcuna tutela, in una condizione di semi schiavitù. Un destino toccato in sorte a un ragazzo del Camerun, impiegato nella raccolta di pomodori per pochi euro al mese, con turni di lavoro sfiancanti. Così che nel migrante è maturata la volontà di fare ritorno al luogo natio, dove oggi si dedica in proprio all' agricoltura coltivando grano e ortaggi. LAVORO IN LOCO - Stessa cosa per un ragazzo del Ghana: approdato sulle nostre coste con la speranza di trovare il benessere, ha attraversato una via crucis che tra le sue tappe prevedeva la raccolta di asparagi, la pulizia di allevamenti di polli e tacchini nelle campagne venete, la raccolta del basilico. Una vita di fatica e stenti, non così diversa da quella precedente nel continente nero, dove il giovane ha scelto di tornare. Oggi il ghanese ha messo in piedi un allevamento da lui gestito in loco. «Un' altra storia simile - aggiunge Favarin - è quella di un senegalese che, sfuggito allo sfruttamento nostrano, è tornato in Senegal, comprato una barca e avviato un' attività di pesca che oggi dà lavoro a nove persone». Nel 2018 sono stati circa 1200 i casi di rimpatrio volontario, ma secondo Favarin a ostacolare questo percorso virtuoso sono due fattori: «Dietro al progetto migratorio c' è un grande investimento da parte delle famiglie, spesso il ritorno a casa è visto come un fallimento. Infine, se l' Occidente non rinuncia al suo approccio neocoloniale in Africa, il problema sarà sempre presente, e i rimpatri assistiti non riusciranno a tamponare la ferita».  di Andrea E. Cappelli