Tre giorni di serrata delle boutique
Il "giusto" sciopero di D&Gcontro la decrescita di Pisapia
A Milano, Dolce & Gabbana hanno deciso una serrata di tre giorni di tutte le loro boutique cittadine per protestare contro le parole dell'assessore al Commercio D'Alfonso, che si era detto contrario a concedere spazi pubblici a chi, come i due stilisti (giudicati colpevoli di evasione fiscale in primo grado) ha avuto condanne per reati "particolarmente odiosi in un Paese in crisi come il nostro". Gli stilisti hanno minacciato anche la restituzione dell'Ambrogino d'oro (la massima onorificenza cittadina) ricevuti qualche anno fa. L'assessore di Pisapia ha fatto retromarcia, dicendo di aver parlato solo a titolo personale e in modo informale, ma la querelle ormai è aperta. Quando uno fa il sindaco di Milano, capitale mondiale della moda (ma fino a quando ancora, con questa amministrazione?), e un marchio come Dolce&Gabbana, ti organizza una serrata di tre giorni contro, hai altrettante alternative: vai casa e ti impicchi, vai a casa e basta, mandi a casa a calci nel sedere chi ti ha messo in queste condizioni. Scartata la scelta del samurai, che non appartiene al personaggio, a Pisapia restano la seconda e la terza strada, entrambe auspicabili: rassegnare le proprie dimissioni irrevocabili o licenziare D’Alfonso, assessore non alla morale dei fessi, come induce a pensare il suo operato, bensì al Commercio. Tutto nasce infatti dalla spocchia di questo dilettante allo sbaraglio il quale, in spregio al proprio mandato istituzionale, si è lanciato in una crociata giustizialista e moraleggiante contro uno dei simboli della Milano che si afferma nel mondo, e ha annunciato di non voler concedere né il Duomo né il Castello Sforzesco alla coppia di stilisti per le loro sfilate, in quanto la città «non ha bisogno di farsi rappresentare da evasori fiscali». Pur senza farne il nome, il riferimento a D&>, recentemente condannati in primo grado a 20 mesi e 500mila euro di provvisionale per evasione fiscale, non era equivocabile. Alla faccia del garantismo, storico valore della sinistra e in particolare dell’avvocato Pisapia, l’assessore li ha messi al bando senza neppure aspettare la condanna definitiva. Due milanesi (uno di nascita, l’altro, come quasi tutti, d’adozione) che da 25 anni danno lustro e portano centinaia di milioni in città trattati come ormai non vengono trattati neppure gli extracomunitari clandestini. Ma D’Alfonso aveva fatto i conti senza l’oste. Il poveretto infatti, con lo snobismo che contraddistingue buona parte della banda Pisapia, non aveva calcolato che se Milano non ha bisogno di Dolce e Gabbana (ed è tutto da dimostrare), i due stilisti hanno ancor meno bisogno di Milano, di lui e della sua Giunta (e questo invece è certo) e si sono affrettati a dimostrarlo. A nulla infatti è servita la goffa retromarcia di D’Alfonso, che si affrettava a precisare che la frase ingiuriosa «non era contenuta in un’intervista bensì estrapolata da una conversazione informale». Così, dopo uno sfogo francamente un po’ isterico in cui definivano il Comune “vergognoso, schifoso e ignorante”, con il pragmatismo, la genialità, il tempismo e la tigna degli imprenditori di razza, i due stilisti hanno elevato il tono della polemica e deciso di «chiudere per indignazione» tutti i loro nove esercizi commerciali in città, come recita il cartello esposto sulle saracinesche abbassate dei negozi D&>. E chissenefrega se perdono un weekend di saldi, quindi di buoni incassi, Dolce e Gabbana se lo possono permettere; si possono pure permettere di deludere i turisti giapponesi che da sei mesi si erano programmati la tappa di shopping. Troppo più importante è il messaggio da dare: un grido di protesta contro una politica cittadina che deprime sistematicamente l’economia, quasi l’aggravamento della crisi fosse nel programma elettorale; uno schiaffo a Pisapia, che aveva liquidato come «inaccettabili» le proteste degli stilisti; una sfida muscolare all’amministrazione, perché i turisti giapponesi potranno comprare vestiti D&> anche a Tokio, quando rientreranno, ma una cosa è certa, a Milano non torneranno più e a parenti e amici la prima cosa che racconteranno sarà quel cartello «Chiusi per indignazione», che non è proprio un invito a venire qui. Si chiude così quella che Briatore con lo stesso piglio con cui bocciava i suoi aspiranti manager a Sky, ha definito «una enorme figura di m… per il Comune» e che per chi a Milano da due anni prova a vivere e lavorare nonostante il sindaco non è che l’ennesima riprova della distanza tra la banda arancione e lo spirito della città e di chi la anima tutti i giorni. Una distanza culturale e filosofica prima che politica. Milano è sempre stata in Italia il simbolo del dinamismo, un faro per tutta la nazione, la città del lavoro dell’impresa, del denaro, degli eventi, del traffico che - a differenza di Roma e Napoli - scorreva rapido, delle occasioni da prendere al volo, del divertimento, della moda, l’unica non provinciale, l’unica che nonostante le tutto sommato modeste dimensioni potesse passare per una metropoli. La voglia, l’iniziativa, l’apertura, l’inclinazione agli affari, si respiravano. Oggi non è più così. La Milano da bere è diventata la Milano da digiunare o, meglio, da condannare. Là dove c’erano progetti, ora ci sono tagli. Là dove c’era apertura e curiosità, c’è chiusura e grettezza, malgrado una politica terzomondista. Là dove c’erano gli imprenditori e i professionisti, oggi ci sono i pm e i loro galoppini. Sono loro le nuove star della città. Nei salotti, nelle redazioni, nei centri sociali, nelle cooperative, la sinistra ha inseguito disperatamente il potere in città per trent’anni. E quando c’è arrivata, più per le colpe della Moratti e di un centrodestra compromesso e consunto che per meriti suoi, ha dimostrato tutta la propria inadeguatezza e ha svelato a se stessa di non sapere che farsene del potere. Questa giunta ha distrutto in 25 mesi tradizioni centenarie. «Chi volta il cul a Milàn volta il cul al pan», si diceva. Oggi è la città dei negozi chiusi e dei giovani che emigrano. «Milàn col coer in man» recita un antico proverbio. Oggi è una città egoista, dove la preoccupazione principale è nascondere il portafogli e mettere in salvo quel che si ha. Pisapia&friends non conoscono la città. Non hanno un progetto economico e hanno abdicato a quello culturale. Hanno infilato una serie di provvedimenti che sarebbero riusciti a stroncare sul nascere le carriere di Mister Ikea e Amancio Ortega, l’inventore di Zara. Volevano chiudere le gelaterie dopo la mezzanotte, hanno aumentato il canone a bar e ristoranti per i tavolini fuori, hanno miniaturizzato l’albero in piazza Duomo e tolto le luminarie di Natale - che per un mese facevano di Milano la città più calda d’Italia -, hanno imposto la chiusura dei chioschi dopo le 24, ma grazie a dio perfino gli amici giudici si sono gli hanno detto che era troppo e il Tar ha bocciato il provvedimento. Danno più importanza ai rom che alla moda, coccolano i parassiti e bastonano i contribuenti. Hanno eliminato la notte bianca dello shopping. Vorrebbero che si girasse solo in bicicletta anche se metà delle persone che lavorano vengono da fuori e anche se a furia di pedalare, d’inverno si arriva in ufficio zuppi di pioggia e d’estate di sudore. Fanno pagare 5 euro per entrare in centro ma non hanno cambiato la viabilità, quella che aveva diviso la prima cerchia dei Navigli in spicchi, di modo che fosse praticamente impossibile passare da una parte all’altra in auto. Oggi si paga per non inquinare, ci sono un quarto delle macchine, ma lo stesso ci si impiega mezz’ora per fare due chilometri. Gli esponenti della giunta vagano come zombie tra bilanci in rosso, progetti irrealizzabili e iniziative fantozziane. Sono al governo da due anni, ne hanno ancora tre davanti ma già contano i giorni che li separano dalla fine del calvario. Il sindaco ha annunciato con tre anni d’anticipo che non si ricandiderà. Oltre il 30 per cento della giunta è stata già cambiata, naturalmente solo in seguito a regolamenti di conti politici e antipatie personali e non sulla base di un progetto politico. Il vero sindaco è l’assessore al Bilancio, un personaggio al confronto del quale Tremonti è un prodigo, Bersani un liberista e Monti un nemico delle tasse. Ha piegato ogni forza mentale e ogni velleità rifacendo i conti a ogni assessorato, suddividendo i tagli in tre categorie: programma forbici, programma dimezzamento e programma morte. Grande visione. E, incidentalmente, non si capisce neppure da dove origini questa fame di denaro, visto che, rispetto alla Moratti, Pisapia ha potuto contare su 80 milioni di gettito Imu e su un’Irpef allo 0,8% (prima non c’era). Nel solo 2013 le tasse sono aumentate di un miliardo e mezzo. Abbrutiti da loro stessi, senza la vitalità di un progetto, gli assessori infilano gaffe e corbellerie a raffica. Pisapia e i suoi sono di fatto il braccio armato di Grillo: il comico teorizza la decrescita, loro con leggi tafazziane e provvedimenti da figli dei fiori, la realizzano. Ieri la Moratti ha annunciato che desidera tornare alla politica. Nessuno fino a un anno fa poteva immaginare che sarebbe stata una buona notizia.