Mossa anti-Fornero
Pensioni, bastano 38,5 euro al mese per avere il 10% in più
L’allarme ufficiale l’ha lanciato la Ragioneria Generale dello Stato. Quando ci ha detto che i tassi di sostituzione, il rapporto cioè tra l’ultimo reddito di un lavoratore e la sua prima rata di pensione, andranno man mano a calare. Motivi? Da un lato è la normale conseguenza della riforma Dini del ’95 che prevedeva il graduale passaggio dal sistema retributivo (pensione calcolata sugli stipendi degli ultimi anni di lavoro) al contributivo (pensione calcolata sui contributi effettivamente versati), dall’altro è l’effetto della brusca accelerata impressa dalla Fornero (l’introduzione dal 1° gennaio del 2012, con il meccanismo del pro rata, del contributivo anche per i lavoratori che erano stati salvati da Dini, quelli che nel 1995 avevano almeno 18 anni di contributi). In soldoni: per chi ha alle spalle almeno 35 anni di contribuzione, i tassi si attesteranno in media, nel 2020, su valori tra il 70% dei dipendenti e il 64% degli autonomi. E nei 20 anni successivi passeranno al 65% per la prima categoria e al 55% per la seconda. Cosa vuol dire? Che in futuro avremo un assegno previdenziale, in proporzione, sempre più basso rispetto allo standard di vita che potevamo permetterci lavorando. E che quindi diventerà sempre più importante trovare il modo di rimpolpare la nostra pensione. Ed eccoci al punto: la previdenza complementare. In generale, i lavoratori dipendenti, ma anche i collaboratori, gli autonomi e i liberi professionisti possono decidere di aderire a un fondo negoziale di categoria, a un fondo aperto o a un qualsiasi strumento individuale (i Pip assicurativi, per esempio) ) per assicurarsi una «seconda» pensione a fine carriera. Con un distinguo fondamentale. I lavoratori dipendenti dovranno innanzitutto decidere cosa fare del proprio trattamento di fine rapporto. Se lasciarlo in azienda, e in questo caso godranno di una rivalutazione del 75% del tasso di inflazione più l’1,5%, o spostarlo in un fondo pensione. Occhio, perché si tratta di uno strumento finanziario e quindi nella scelta bisognerà stare attenti alla struttura dei costi, alle performance storiche del fondo e alla composizione del portafoglio degli investimenti. Fisco più buono - Ma ci sono diversi vantaggi. Innanzitutto fiscali. Se lasciamo il Tfr in azienda al momento della liquidazione saremo soggetti alla tassazione separata (scaglione Irpef dal 23 al 43%) mentre con i fondi avremo un aliquota tra il 15% e il 9% (dopo i primi 15 anni l’aliquota del 15% si riduce dello 0,30 per ogni anno successivo fino ad un massimo di 6 punti). Lo stesso vale per la ritenuta sui rendimenti che è dell’11% contro il 20% delle altre attività finanziarie. E poi c’è la questione della flessibilità. In azienda, infatti, possiamo chiedere un’anticipazione dopo 8 anni nel limite complessivo del 70% dell’importo maturato, per motivi sanitari, acquisto o ristrutturazione ordinaria o straordinaria della prima casa e per congedi parentali. Nei fondi, invece, quanto maturato può essere anticipato, al 75%, in qualsiasi momento per motivi sanitari e più volte nel corso della vita lavorativa. Del resto, la normativa della previdenza complementare permette di anticipare fino al 30% del maturato per qualsiasi ulteriore motivo. E non finisce qui. Perché una grossa mano alle pensioni di scorta arriva dal contributo del datore di lavoro, che oscilla tra l’1 e l’1,80% della retribuzione annuale (su un reddito lordo annuo di 30 mila euro avrà tra i 300 e i 540 euro in più all’anno) e spetta al dipendente solo se questi decide di aderire a un fondo pensione negoziale e versa il contributo minimo stabilito a suo carico dal contratto (da ricordare che i contributi versati dal lavoratore e dal datore sono deducibili fino a un massimo di 5.164,57 euro). «Se mettiamo insieme il Tfr (pari a circa l’8% della retribuzione annua), il contributo del dipendente e il 2% del contributo del datore di lavoro – spiega il presidente di Assoprevidenza Sergio Corbello - con la previdenza complementare il lavoratore si assicura uno zoccoletto annuo superiore al 10% del suo reddito da lavoro, un tesoretto fiscalmente agevolato che mette da parte per integrare la pensione pubblica. Insomma, se a questo sommiamo la duttilità dell’impiego dei soldi che investiamo nei fondi, è facile comprendere quale sia la scelta giusta da fare». E Alberto Brambilla, uno dei massimi esperti del sistema previdenziale italiano, aggiunge: «A un giovane con un reddito da 15 mila euro e 40 anni di lavoro davanti che volesse incrementare del 10% il suo tasso di sostituzione basterebbe investire 38,5 euro al mese nella previdenza complementare. Che al netto delle tasse sono ancora meno. Non ci stiamo inventando nulla: è il sistema che funziona da anni in Paesi come Danimarca e Olanda». I numeri - Tutto bello, certo, ma alla fine la domanda che si fa ogni cittadino è sempre la stessa: conviene? Insomma: quanto rendono i prodotti della previdenza complementare? Tutto dipende, come è ovvio, dalla scelta del fondo e dall’abilità dei gestori. Certo. Ma poi ci sono i numeri. Gli ultimi dicono che il rendimento medio del 2012 ha più che doppiato la rivalutazione del Tfr: più 7,8% per i negoziali (quelli di aziende o singoli comparti come i metalmeccanici o i chimici) e più 8,6% per gli aperti (quelli sottoscrivibili da tutti e istituiti da banche, Sgr, Sim e imprese di assicurazione). Ma non è sempre oro quello che luccica. Perché nel 2011 il dato era decisamente meno allettante: più 0,1% per negoziali e meno 2,4% per gli aperti. Cosa vuol dire? Che, per evitare distorsioni, la previdenza complementare va valutata nel lungo periodo. Eccoci: a cinque anni i fondi aperti hanno dato performance medie dell’8,6%, mentre per i negoziali i rendimenti medi si sono avvicinati all’11%. Il gioco dei gemelli - Fabio Ortolani, che è stato responsabile della divisione fondi pensione dell’Agci (Cooperative Italiane), membro della Covip (l’authority del settore), presidente del fondo dei metalmeccanici di Cometa (il più grande tra i negoziali in Italia) e ora è numero uno dei chimici di Fonchim (terzo in Italia) si è inventato il sistema dei gemelli. In pratica, ha messo a confronto i rendimenti ottenuti negli anni da chi ha deciso di mantenere la liquidazione in azienda rispetto a chi l’ha messa in un fondo pensione. Bene. In tutti i casi (si veda la tabella in alto), anche senza considerare la fiscalità di vantaggio, ha vinto la previdenza complementare. Ma è risultato fondamentale il contributo del datore di lavoro. Tanto per capirci: un chimico con uno stipendio base che nel 1997 avesse aderito al fondo comparto “Stabilità” (30% azioni e 70% obbligazioni) di Fonchim, oggi si ritroverebbe con 78 mila euro, mentre il suo gemello che avesse deciso di lasciare il Tfr in azienda oggi ne avrebbe 58 mila. Occhio però, perché il contributo del datore di lavoro pesa per più di 10 mila euro. «È importante sottolineare – spiega Ortolani - che l’unico scopo dei fondi pensione è quello di fornire una pensione integrativa adeguata agli iscritti e non perseguire il maggior profitto. Questo concetto è fondamentale anche nell’ottica di una riforma della normativa sulle possibilità di investimento. Il legislatore dovrebbe imporre dei limiti quantitativi chiari e precisi, che obblighino comunque i fondi pensione a una forte diversificazione». Si dirà, sono dati limitati e riguardano un unico fondo. Bene. Su www.giornatanazionaledellaprevidenza.it, il sito di Alberto Brambilla, c’è una simulazione più completa che parte dal 2007 e arriva a novembre 2012. E che prende in esame un lavoratore con una retribuzione annua lorda di 32.500 euro che a novembre 2012 fosse diventata di 38 mila euro (3% di rivalutazione media annua). Cosa ne esce fuori? Che il dipendente che avesse deciso di lasciare il Tfr in azienda avrebbe perso il contributo del datore e accumulato un Tfr rivalutato di 14 mila euro e passa. Chi invece si fosse affidato a un fondo negoziale, avrebbe potuto contare sui 3.228 euro versati dall’azienda, sul Tfr e sui rendimenti finanziari netti calcolati sulla media dei 70 comparti dei principali fondi pensione negoziali attivi. Morale della favola: oggi si ritroverebbe con 17 mila euro e passa, circa il 20% in più del suo gemello diverso. di Tobia De Stefano