La tragedia di Bergamo
E' giusto seppellire insiemela vittima e la sua assassina?
di Pierangelo Maurizio pierangelo.maurizio@alice.it Ieri Elisa e la madre Alessia Olimpo, la dentista trentaseienne di Bergamo che sabato ha ucciso a coltellate la figlia e poi si è suicidata, sono state insieme, ricomposte nelle bare, nella camera ardente allestita nella cappella accanto alla chiesa parrocchiale del quartiere Monterosso. Oggi, allineate nella navata, saranno ancora una accanto all’altra nel funerale che sarà celebrato davanti a tutta Bergamo. «Un gesto di calore della comunità» che si stringe attorno al padre e al marito, Alberto Calderoli, si dirà, un «atto d’amore per avvolgere Elisa e Alessia», per rimediare all’indicibile. Ma è un’ipocrisia. Parole tardive e inutili. E io mi chiedo, con la morte nel cuore essendo io un genitore: è possibile, è accettabile, accomunare in un funerale la vittima innocente - ed è difficile trovare una vittima più innocente di un angelo di 18 mesi - e il suo carnefice, anche se è, purtroppo, la sua mamma? Non so dare risposte. E non so dare né tantomeno voglio dare giudizi su una tragedia incommensurabile. Ogni suicidio è insondabile, impossibile anche solo lontanamente capire l’abisso della follia e la disperazione di Alessia. Ma quando le madri, e i padri, cancellano le vite di chi hanno messo al mondo e si uccidono, è come se si ci fosse un ulteriore estensione dell’abisso. È un gesto che per quanto dettato dalla depressione e dalla follia sottintende un’idea: e cioè che quelle vite che abbiamo originato non sono solo un miracolo stupendo, su cui magari abbiamo riversato tutto il nostro amore fino al gesto estremo, ma che è roba nostra, i figli sono nostra proprietà. Nostro diritto portarli con noi. Vota il sondaggio: è giusto seppellire insieme vitttima e carnefice? Il non perdono - E io temo che questo rito purtroppo sempre più frequente del funerale comune, un sacramento per chi crede, serva solo a tacitare le nostre coscienze, a ripulirle, e non serva invece alla società, comunque, a sancire la censura di un’enormità, pubblicamente, a cercare di ristabilire un sistema di valori quando un proprio membro rompe l’ordine della vita. Ecco, sì, credo che si giustifichi in qualche modo l’altra enormità, l’idea aberrante che i figli sono cosa nostra. Dal fondo del suo dolore che non può essere definito Alberto Calderoli, padre e marito, ogni giorno su Facebook - per non impazzire, per non morire del tutto - scrive parole che dovremmo leggere. Le ho imparate a memoria. Nel rivolgersi alla moglie Alessia, in un dialogo intimo ma che è anche pubblico, le dice: «Non riuscirò mai a perdonarmi di non essere riuscito ad aiutarti ad uscire dalla tua malattia e a ritrovare la voglia di vivere. Non so se riuscirò a perdonarti per esserti portata via la meravigliosa creatura, piena di vita, che abbiamo creato insieme…». Non è il caso di fare sociologia un tanto al chilo. Ma negli ultimi decenni sono venuti meno tutti quegli ammortizzatori famigliari (nonne, zie, cugine, nipoti, vicine di casa) di fondamentale importanza nell’aiutare - soprattutto lei, anche in una coppia apparentemente felice, bella, ricca, sportiva come quella di Bergamo - ad affrontare la fatica di vivere e il mestiere duro di crescere cuccioli di uomo e di donna. Poco consola rievocare il mito di Medea, che uccide i figli, per dire che queste tragedie sono sempre esistite. Di certo le strutture, con cui dovremmo riempire il nostro vuoto pneumatico, assistenti sociali, servizi psichiatrici (soprattutto da quando abbiamo abolito per legge la pazzia), servono a fornire stipendi più che ad arginare lo sfarinamento della nostra società dopo che abbiamo/si è sbriciolata la famiglia, che è la cellula base della società. La denuncia - Nel ringraziare il sindaco di Bergamo per la lettera che gli ha inviato, Alberto Calderoli replica: «Apprezzo il gesto ma purtroppo non servirà a portare in vita nessuno». Una mazzata, la sua denuncia. «Da un anno e più ho fatto il mio umanamente possibile per aiutare Alessia e mi sono trovato davanti un sistema che non può intervenire in aiuto perché la persona che sta male, quindi non in grado di capire che sta male, non può essere obbligata a curarsi, se non vuole (peccato solo che non possa volerlo)…». Quello che ci resta è, con le parole del papà, dire «ancora una volta ciao Eli, sogni d’oro».