Il delitto di Meredith
L'intervista, parla il giudice:"Ecco perché ho assolto Amanda"
intervista di Roberta Catania Claudio Pratillo Hellmann è un giudice in pensione. Non un giudice qualunque: lui, il 3 ottobre del 2009, aveva letto la sentenza (annullata l’altro ieri dalla Cassazione) con la quale Amanda Knox e Raffaele Sollecito erano stati assolti per non avere commesso l’omicidio di Meredith Kercher. All’epoca Pratillo era il presidente della Corte d’Assise d’appello di Perugia, chiamata a pronunciarsi sull’efferato delitto della studentessa inglese trovata morta il 2 novembre del 2007. A fare ricorso erano stati gli imputati, condannati in primo grado a 25 e 26 anni di carcere. Lunedì scorso, ripercorrendo la vicenda in Cassazione, per smontare l’assoluzione decisa dalla Corte d’Appello, il procuratore generale Luigi Riello ha usato parole forti: «Il giudice che ha preso quella decisione ha perso la bussola», quella sentenza d’assoluzione «è un concentrato di violazioni di legge e di illogicità». Ebbene, ecco che cosa ne pensa il giudice che avrebbe perso la bussola: «Quella del pm è sempre un’opinione, è il giudice che emette la sentenza. Perciò è nelle motivazioni della Cassazione che bisognerà leggere se la Corte da me presieduta avesse perso la ragione. Ad ogni modo il pg avrà letto e interpretato i fatti in modo diverso dal nostro, ma le parole che ha usato nei nostri confronti mi sembrano eccessive. E soprattutto, quale legge avremmo violato?» Appunto, presidente, ce lo dica lei. Ci sono state violazioni di legge? È vera la storia delle pressioni dall’America perché Amanda tornasse a casa da cittadina libera? «Assolutamente no. Basta tenere presente che noi abbiamo ereditato un processo “tutto in fatto”, nel quale cioè dovevamo solo valutare le prove. Non abbiamo disposto alcun supplemento di indagine, l’unica mossa avanzata da noi è stata quella di chiedere una perizia sulle prove genetiche, poiché sia l’accusa che la difesa consideravano il Dna sui reperti la prova regina per vincere il processo». Cioè, sostanzialmente vi siete basati sulle stesse prove che ai giudici di primo grado avevano ispirato condanne esemplari, a 26 e 25 anni di carcere, ma che per voi valevano un’assoluzione piena? «Esattamente. Abbiamo esaminato quelle prove, che a nostro giudizio non erano convincenti. Non erano convincenti soprattutto alla luce di un’attenta rilettura del codice di procedura penale, che obbliga “all’assoluta certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio”, che - in questo caso - la Knox e Sollecito fossero colpevoli. Per questo in coscienza sono a posto. Lo siamo tutti. Eravamo consapevoli di andare incontro alle contestazioni che infatti ci sono state la sera stessa fuori dal tribunale, o a diverse interpretazioni come quella della Cassazione. Ma noi abbiamo agito secondo la nostra coscienza». Secondo lei Amanda e Raffaele sono innocenti? «Non è questo il punto. Noi abbiamo cercato “la verità processuale”, che non è detto coincida con la verità oggettiva, ma che di sicuro ha bisogno di prove certe. In questo caso non c’erano prove. C’erano solo indizi e anche labili». Quali erano questi indizi traballanti che in primo grado erano stati considerati prove schiaccianti? «Tutto si fondava sul coltello trovato a casa di Sollecito e il reggiseno della vittima recuperato, in un secondo tempo, sulla scena del delitto. Tutti gli altri elementi a carico erano sciocchezze». Il Dna degli imputati sull’arma del delitto e sulla biancheria di Meredith non era una prova? «No. Spiego il perché. Il giudice di primo grado non aveva ritenuto di dover chiedere una perizia tecnica. Si era basato su quella della Polizia Scientifica. Ai pm era bastata per chiudere il quadro d’accusa, ma quando la difesa degli imputati - in secondo grado - ha puntato proprio sulle contestazioni delle incongruenze riscontrate in quella perizia, abbiamo deciso di chiedere anche noi una consulenza super partes. I professori, a nostro avviso i migliori a disposizione, hanno però completamente smontato le prove biologiche». Non c’era il Dna degli imputati? «Sì, ma sulla lama del coltello le tracce erano talmente labili che la mappa genetica dei Dna a cui potevano essere ascritte era troppo ampia. Quelle tracce leggere - oltre alla Knox e a Sollecito - potevano essere ricondotte perfino a me, cioè in grado di compatibilità con il Dna del presidente della Corte». E il gancetto del reggiseno di Mez? «È vero che c’era un Dna ascrivibile a Sollecito, ma compariva anche quello di altri tre uomini. Dimostrando che la prova era stata compromessa dall’inquinamento della scena del delitto. Quel reperto, fotografato il primo giorno di indagini, era stato lasciato lì, nella camera da letto. Solo un mese e mezzo dopo è stato deciso di recuperarlo e analizzarlo. Ma si era subito notato che, rispetto alle foto della scena del delitto, il reggiseno era stato spostato di oltre un metro ed era finito sotto un tappeto». Però, anche se gli altri tre Dna maschili potevano essere quelli dei poliziotti entrati successivamente nel corso di quel mese e senza le tute bianche, le tracce di Sollecito erano comunque sul reggiseno. «Ma Sollecito frequentava quella casa. Era il fidanzato della Knox, coinquilina della Kercher. E proprio il giorno del delitto era stato a pranzo nella villetta di via della Pergola». Ma non avrebbe avuto ragione di toccare la biancheria intima della coinquilina della fidanzata. «Non è detto che lo abbia fatto. Le tracce di Dna vengono lasciate anche da frammenti di cellule della pelle. Sostanze organiche infinitamente piccole, che possono essere state trasportate su quel gancetto in un secondo tempo. Dalla scarpa di un poliziotto entrato nella casa in quel mese e mezzo o anche da un colpo d’aria». E il famoso memoriale di Amanda dal quale pare che la Cassazione chiederà di ripartire? La confessione scritta con la quale accusava nei dettagli Patrick Lumumba? «Non era tra le carte del processo e non ne conosco i contenuti». Infatti il memoriale non era stato allegato al fascicolo del dibattimento, il giudice di primo grado lo aveva ritenuto inammissibile. Altro punto oscuro. «Non sapevo neanche che esistesse. Ma se questo memoriale fosse stato tanto importante, i pm avrebbero chiesto di acquisirlo nel dibattimento d’appello». Secondo il pg, e forse anche secondo la Cassazione che ha accolto la richiesta di rifare il processo, le accuse a Lumumba sarebbero prova della colpevolezza di Amanda. Se innocente, non si accusa un altro. «Condannando la Knox per calunnia, abbiamo spiegato che la ragazza era stata sottoposta a un interrogatorio molto duro da parte della polizia. Senza difensore. Senza dormire e con un interprete che la invitava a porre fine a quel lungo confronto. In quel contesto, ha fatto il nome di Patrick. Non è uscito dal nulla, ma dopo che le era stato contestato uno scambio di sms con lui. Lumumba era il suo datore di lavoro, per questo si erano scritti. Accusarlo le potrebbe essere sembrata una via di uscita per scappare da quel confronto serrato. Ricordiamoci che Amanda era una ragazza molto giovane, arrivata da poco in Italia e che non parlava bene la nostra lingua. Per me era logico che in quel contesto potesse straparlare. Aspettiamo le motivazioni della Cassazione per capire cosa non abbia convinto quei giudici».