L'anima degli imprenditori
Conquistare il mondo restando artigiani: la lezione di Moreschi
In una puntata dell’arcinota serie tv Tyrant, Moran Atias indossa le (stupende) décolleté Moreschi con tacco a spillo di dieci centimetri modello Marilyn, in pelle di vitello verniciato color nude. Nelle sue boutique - quaranta disseminate in Europa, Medio Oriente, Africa e Asia - si incontrano a far shopping vip anche dello sport come Flavia Pennetta e sono molti i professionisti (e pure gli imprenditori) che calzano scarpe Moreschi. Nata nel 1946 a Vigevano, la Moreschi in sette decenni è diventata un punto di riferimento per le calzature italiane di estrema qualità ed è la più grande fabbrica di Vigevano con proprio marchio, perché molte altre fabbriche locali realizzano calzature per stilisti famosi. E altre, pur con proprio marchio, non raggiungono neanche lontanamente i numeri di Moreschi e non escono dal diametro vigevanese o, al massimo, lombardo. La Moreschi, invece, vende attualmente in circa ottanta Paesi del mondo. L’azienda, fondata da Mario, ha attraversato settant’anni della storia delle scarpe e della storia dell’imprenditoria. Nel tempo in cui le risaie delle statali lombarde ospitavano le mondine, Moreschi iniziava a realizzare scarpe per uomo. Poi è arrivata la modernizzazione, che ha introdotto le macchine e portato via le mondine. Nella realtà Moreschi, però, il tempo non è stato vincitore, ma casomai è stato vinto da un’azienda che è diventata eccellente ed ha saputo trasportare la tradizione nella modernità, anche nelle scarpe femminili, che ora produce accanto alle maschili. Nel 2003 è stato inaugurato il polo produttivo di 70.000 metri quadri dalla curiosa forma che ricorda una scatola di scarpe. Poco lontano, stanzia una statua che raffigura due mocassini da uomo uno contro l’altro, a simboleggiare la M di Moreschi (logo ideato dal designer AG Fronzoni). Uno dei luoghi più importanti del polo è il caveau del cuoio. Utilizzato per le suole, viene conservato, come fosse vino che migliora invecchiando, suddiviso per annate. C’è perfino quello del 1946, che apparteneva a Mario, il padre di GianBeppe (oggi ottantaduenne, che abbiamo intervistato). Negli anni 70 la Moreschi fa pubblicità sul Corriere della Sera con originali fumetti che hanno per protagonista Piedo Bombetta e Richard Burton calza un paio di stivaletti Moreschi nelle foto di un’intervista per Oggi. Negli 80 entrano in azienda i figli di GianBeppe: Mario, Stefano e Francesco. È di Mario l’idea di realizzare il progetto «Moreschi 1946 Guado al Tasso», una limited edition su ordinazione che prevede francesine da uomo realizzate a mano come tutte le altre scarpe Moreschi, ma in più tamponate a mano, con le vinacce di Guado al Tasso, la tenuta vinicola di Bolgheri dei Marchesi Antinori. Nella confezione, anche una magnum di vino Guado al Tasso Antinori 2011 e un invito a trascorrere due giorni tra i vigneti di Bolgheri. Mentre è di Francesco l’idea, sempre in limited edition ma ormai esaurita, della pieghevole Tender Mambo Bike, una city bike leggerissima - che speriamo ricomincino a produrre - forse omaggio al papà GianBeppe, che ogni giorno scende a fare il giro in produzione in bici. Leggerezza è la parola chiave di quest’azienda che produce calzature fatte, però, per durare quanto dura la loro storia, celebrata anche da un table luxury book appena edito da Rizzoli, La calzatura italiana fra arte e mestiere. Si definiscono «orologieri della calzatura», «artigiani su scala industriale», e dopo aver passato un’intera giornata nel polo ad osservare, incantate, come e dove nasce una scarpa Moreschi, possiamo confermare che lo sono. GianBeppe Moreschi, «Da Vigevano al mondo» è il vostro slogan. Come si sente ad essere il timoniere della principale fabbrica con proprio marchio di Vigevano, storico distretto calzaturiero, che ha ben settant’anni e diventa sempre più grande? «La cosa è cresciuta e non me ne sono accorto. Sono arrivato dopo aver finito gli studi ed ho iniziato in un laboratorio piccolo. Una fortuna, perché si vede e si impara tutto. Dopo il laboratorio si è sviluppato, ma se ti cresce addosso, intorno, è come un bambino che nasce piccolo e non si accorge di crescere. Però cresce, fin quando assume le dimensioni finali». Lei ha contribuito a questa crescita. La nuova fabbrica nasce da una sua idea, ha il laghetto, una riserva d’acqua di recupero con, anche, funzione antincendio, la pista ciclabile all’interno delle tre aree produttive che permette spostamenti veloci. «A un certo punto mi sono detto che prima di ritirarmi volevo mettere insieme un polo produttivo nuovo. Due anni di progettazione, assistito da architetti e ingegneri. Sapevo esattamente di cosa avevo bisogno». Mi ha colpito l’asilo nido aziendale. Non è molto diffuso in altre realtà industriali. Non lo è nemmeno il rispetto per i dipendenti. Lei, invece, definisce i suoi «capitale umano». «Sì. Per fare qualsiasi cosa ci vuole della materia prima e del lavoro. Se faccio delle scarpe devo prendere della materia prima, cuoio e pelle, e lavorarla manualmente. Ma per curare i dettagli di una scarpa che non sia fatta di corsa ci vuole passione. Si è come pasticceri, che guarniscono una base di torta con fiorellini e decorazioni». Quindi un personale felice è più appassionato? «Sì, perché lavora sul bello, sul fine». Gli addetti alla tinteggiatura sembrano una via di mezzo tra artigiani ed artisti. Quasi dei pittori. «Per le scarpe tinte a mano usiamo pelli la cui coloritura finale viene data da noi, a seconda della sfumatura cromatica che vogliamo ottenere. Realizzandone la coloritura manualmente, nessuna scarpa è mai uguale all’altra». I suoi dipendenti non sono robotizzati come, per esempio, in una fabbrica cinese. «No, no, non c’entra niente con quello che facciamo noi, quantitativi limitati ma estremamente curati». Molti produttori di calzature ormai orlano fuori dalla fabbrica, all’estero. Lei invece fa entrare pelle e cuoio e li fa uscire dalla fabbrica sotto forma di scarpe ovvero prodotto finito. Perché? «Nell’immediato dopoguerra, Vigevano produceva un terzo delle scarpe nazionali. C’erano migliaia di fabbriche e trentamila addetti. Le orlatrici cuciono le tomaie. Passando per Vigevano, si sentiva il continuo ticchettio del battere col martelletto, sembrava un ufficio telegrafico. Si orla fuori anche perché l’orlatrice non è più una professionalità diffusa». L’orlatura è la fase più difficile e costosa della produzione delle scarpe e lei ha scelto di continuare a farla dentro. «Sì, fin quando troveremo personale qualificato». Cosa pensa delle scarpe che, rispetto alle vostre, sono di qualità inferiore, non fatte per durare anni o decenni? «Noi siamo come un ristorante alla carta. Realizziamo di meno, ma di qualità. Fu la scelta, vincente, di mio padre. A Vigevano allora si facevano tante scarpe, mio padre disse: “Ne farò di meno, ma belle, di qualità”. Io ho seguito quello che faceva mio padre». Mi dica, in tre parole che per lei siano o siano state parole chiave in questi decenni, cosa deve possedere l’anima di un vero imprenditore. «Fantasia. Lavoro, inteso come spirito di sacrificio. Onestà, che è indispensabile in qualsiasi campo». Gemma Gaetani L'anima degli imprenditori - La serie: Negli ultimi anni in Italia si è parlato per lo più di alcuni imprenditori: Silvio Berlusconi, Flavio Briatore, Oscar Farinetti, e spesso non per i loro meriti imprenditoriali. Accanto a questi nomi vip, le cronache hanno talvolta ospitato i nomi sconosciuti di piccoli imprenditori che sono stati piegati dalla crisi fino ad uccidersi. Dagli ideologizzati che vorrebbero cambiare il mondo a chiacchiere e violenza, gli imprenditori sono avversati o considerati «sporchi capitalisti». Ma loro il mondo lo rivoluzionano davvero: con le proprie idee, il proprio coraggio, il proprio denaro. Costruiscono la cultura del Paese, proseguendone le tradizioni e innovandole. Continua - e proseguirà ogni sabato - il viaggio di Libero nelle eccellenze silenziose dell’Italia, alle quali vogliamo dare voce, perché ci raccontino l’anima degli imprenditori.