Il commento della Lucarelli

Pistorius: l'ossessione della sconfitta in pista come in amore

Lucia Esposito

di Selvaggia Lucarelli  Se la vita fosse quella pista d’atletica su cui Oscar Pistorius ha affondato tante volte le sue gambe artificiali, lui e Reeva, la fidanzata uccisa con quattro colpi di pistola,  non si sarebbero mai potuti incontrare sulla stessa linea di partenza. Reeva era nata fortunata. Bella come poche, il suo corpo le aveva regalato un successo facile, costellato da copertine e passerelle. Oscar, appena nato, partiva subito indietro di parecchi giri. A undici mesi il suo corpo finiva già poco più giù del bacino e di sicuro né la madre, né il chirurgo che gli amputò le gambe, potevano immaginare che in quell’assenza, si sarebbero annidati rivalsa e sogni di gloria. Finchè un giorno, dopo le medaglie e i riconoscimenti, Oscar non ha raggiunto Reeva, su quella pista, e l’uomo nato sfortunato e la donna nata fortunata hanno rimescolato le carte del destino, dei privilegi casuali e guadagnati, col finale tragico che conosciamo. Ci sono tante cose dentro questa storia.  Tanto per cominciare, l’eterna confusione che genera quella presunta corrispondenza, a cui a tutti noi piace credere,  tra il virtuosismo  atletico e la virtù dell’animo. Poi scopriamo che Maradona palleggia un po’ meno bene con la vita, che il cancro non ha reso Armstrong un uomo migliore, che O. J. Simpson era un campione solo con l’erba del campo da football sotto i piedi. E scopriamo non che l’eroe è come noi. Quello sarebbe più facile da accettare. Si scopre che talvolta, quell’eroe, è ben peggiore di noi, che è una faccenda più complessa con cui fare i conti, specie se quello peggiore di noi si chiama Oscar Pistorius. Se ha rappresentato l’idea che tenacia e carattere possano riscattare l’uomo da qualunque ingiustizia. Se è diventato un modello per handicappati, bambini sfortunati e normodotati incapaci di rincorrere una passione come lui, nonostante le gambe e i muscoli attaccati al corpo. Ho amato Oscar Pistorius come si ama tutto quello che nella vita celebra la volontà. Ho tifato per lui, mi sono commossa, ho scritto, solo qualche mese fa, che le sue protesi erano di un materiale più leggero del carbonio: il sogno. Oggi mi sento tradita, come i tanti che l’hanno amato. E lentamente salgono a galla i suoi lati oscuri, si compone il puzzle di un personalità più torbida e complessa di quella che lo sport ci raccontava. C’è l’ex fidanzata che lo definisce “una persona ben diversa dalla sua immagine pubblica”. C’è la sua passione per le armi, la pistola sotto al cuscino, la mitragliatrice sul terrazzo. I precedenti poco rassicuranti di denunce: una da parte di una ragazza che l’accusò di averla aggredita a una festa e poi quella per le minacce rivolte a un tizio che sospettava essere l’amante della sua fidanzata. Ma c’è anche un’attitudine alla vita spericolata, il vizio di bere un po’ troppo, la strana mania di acquistare tigri a pitbull da combattimento,  quell’incidente sulla barca che per poco non gli costò la vita poco più di tre anni fa. E infine, c’è l’amica della povera Reeve: «Arrogante e geloso in maniera fuori da ogni logica».  Pare fosse geloso di un concorrente del reality a cui Reeve avrebbe partecipato di lì a pochi giorni. Un belloccio di nome Mario Ogle.  E questo, probabilmente, è il nodo centrale della vicenda. Non erano le gambe di Oscar Pistorius a essere artificiali. Lo era la sua vita. Come la è quella di tutti gli uomini convinti che le donne, non due gambe fatte di viti e carbonio, siano delle protesi, un prolungamento del proprio essere, degli oggetti che senza di loro non hanno vita e dignità e senza i quali si sentono monchi. Amputati nel loro orgoglio e nella loro virilità. Pistorius ha fatto della sua ossessione di non voler essere un perdente, della sua paura di essere compatito, la sua fortuna. Ma forse, c’era qualcosa di patologico, nella feroce aspirazione alla normalità. Forse non c’era solo la paura di perdere, ma anche l’incapacità di accettare l’idea della sconfitta. Che può consumarsi su una pista d’atletica così come in un rapporto d’amore. Forse c’era quello che c’è in tutti gli uomini violenti: la non accettazione del rifiuto, del no a cui ci si deve arrendere. Aveva avuto medaglie e onori, Pistorius, aveva piegato la natura e le sue regole inflessibili spostando più in là l’asticella dei limiti umani e c’era una Reeva qualunque che magari gli diceva no, quella sera. Che ridimensionava il suo senso d’onnipotenza e gli ricordava che di fronte a una donna che non ti vuole o non vuole essere quello che tu le chiedi di essere, non ci sono superuomini. Non ci sono protesi e artifizi. C’è la sconfitta, nuda e cruda. E poco importa che Reeva fosse bellissima, lo amasse, gli avesse regalato le loro foto incorniciate per San Valentino. Infine, il paradosso. Probabilmente i legali di Pistorius invocheranno l’incompatibilità del regime carcerario con l’invalidità del loro assistito.    Ovvero: Pistorius non è un uomo come gli altri, è un handicappato. Non può andare in carcere. L’uomo che ha dedicato la sua esistenza a rivendicare il diritto di correre coi normodotati su una pista d’atletica, chiederà quella compassione da cui è sempre fuggito, per non scontare la sua pena come i normodotati. Quelle protesi erano la sua gloria, oggi potrebbero essere il suo alibi. Forse il giochino gli riuscirà anche, ma una cosa è certa: la polvere che “la cosa più veloce senza gambe” alzava sulla pista, ora è quella in cui è finito per sempre quell’uomo che aspirava alla normalità e invece era solo uno dei tanti omuncoli che con la normalità della sconfitta, del rifiuto di una donna, non sanno misurarsi. E sì, non ha mentito quando ha detto che ha sparato a Reeva perchè l’aveva  scambiata per qualcun altro. In effetti, era la sua fidanzata. Lui l’aveva scambiata per una proprietà.