Il caso
Donne contro femministe: "Basta, i complimenti degli uomini non sono insulti"
Adesso chi glielo dice a Lidia Ravera? Sono tantissime le donne che in questi giorni, su Twitter, contro il femminismo affermano splendide frasi, pure come versi di poesie e precise come motivazioni di sentenze, che perciò riportiamo letterali: «Non ne ho bisogno perché non sono una vittima»; «Non mi serve perché rispetto gli uomini»; «Non mi serve perché mette le donne contro gli uomini»; «Non mi serve perché se un uomo mi fa un complimento non lo considero un insulto»; «Non mi serve perché è stato confuso con la misandria che è negativa come la misoginia»; «Mi piacerebbe essere una casalinga e una mamma che sta in casa e non dovermi sentire come meno di una persona per questo» (commovente); «Distrugge le famiglie» (verissimo). E «I love the D.». Ovvero «I love the dick», ovvero, semplicemente, amorevolmente, «Io amo il pene». Insomma, il femminismo è finalmente morto e ad ucciderlo sono state proprio le femmine, utilizzando l’arma più innocua possibile, l’hashtag #womenagainstfeminism. Sono giovani, occidentali, belle, e ribadiscono il diritto di tornare a concepire il rapporto tra maschio e femmina tradizionalmente. Alleluia: quello del femminismo è il funerale meno doloroso della storia dei decessi, perché ormai soltanto le carampane rimaste agli anni Settanta e le loro giovani indottrinate credono ancora necessario «contrastare il potere dello sporco maschio», cieche dei reali danni procurati nei decenni, presso il povero maschio, dall’ipertrofia egotica di una femminista che, se riceve un sincero complimento da bocca maschile, inizia ad urlare di essere stata sottoposta a una discriminazione sessista o, peggio, lo accoppa con le mosse imparate al corso di autodifesa. Il problema, però, è che queste femministe militanti non sono poche. E nemmeno sole. Su Repubblica.it, increduli e sconfortati, commentano così la notizia dell’hashtag antifemminista che sta spopolando: «Anni di lotte e di rivendicazioni gettati alle ortiche. Basta un hashtag per fare dire alle donne che il femminismo è un capitolo chiuso. Il messaggio è affidato a un cartello». Forse avrebbero preferito una discesa in piazza, che avrebbe reso più facile una controffensiva stragista di queste benedette donne che non vogliono più odiare gli uomini, chissà. Eppure, coi cartelli nei selfie femminili a Repubblica andavano molto d’accordo quando, nell'autunno del 2009, ne raccolsero ben tremila, oltre a decine di migliaia di firme, con l’appello rivolto alle donne che volevano dire a Silvio Berlusconi di non essere «a sua disposizione». In quel caso, il cartello era un ambasciatore valido. Un tentativo di «boicottaggio» dell’incipiente rivoluzione antifemminista, il sito del quotidiano che sul femminismo (soprattutto antiberlusconiano) ha gozzovigliato alla grande, in realtà lo ha già messo in opera. Tra le 51 foto della galleria che ritraggono ragazze, che ribadiscono, timide e vere, a mezzo di cartello autografo, perché rifiutano il femminismo, ce ne sono quattro che veicolano messaggi femministi: «Non odio gli uomini. Semplicemente non ho nulla di buono da dire su di loro. Mai» (forse è muta, foto n. 15); «Non opprimermi coi tuoi ruoli di genere. Adesso fammiti dire come essere un vero uomo» (questa è quella che crede di essere Dio); «Un uomo con più educazione ed esperienza ha ottenuto l’impiego che volevo. Ecco perché ho bisogno del femminismo!» (questa è la furbastra che utilizza il sessismo come mezzo di potere, foto n. 48); «La donna non deve dipendere dalla protezione dell’uomo, ma deve essere capace di proteggersi da sola» (certo, e anche procreare, vivere e morire da sola, foto n. 50). Quando compaiono ci manca solo che parta Gli uomini non cambiano di Mia Martini, la canzone più vittimisticamente misandrica che ugola di femmina italica abbia mai gorgheggiato. Forse qualcuno a Repubblica.it deve aver pensato che se anche Pulcinella scherzando scherzando diceva la verità, allora anche loro potevano ribadire «la verità femminista» nella gallery antifemminista, in modo un po’ scherzoso, un po’ no. Cosa non si fa per determinare a tradimento un cortocircuito nella femmina antifemminista come me (e, per fortuna, come molte altre) mentre scorre, toccata da tanta saggezza, i selfie di benedette sorelle che amano gli uomini. Ma è inutile, noi stiamo con le antifemministe. D’altronde, ci sta anche Camille Paglia. Non è un caso, dato che si tratta di uno dei cervelli più intelligenti che esistano, una femminista che però si è resa conto del fatto che criminalizzare il maschio non porta ad altro che ad un indiscusso superpotere femminile che trasforma presunte assoggettate in effettive assoggettanti, e presunti assoggettanti in effettivi assoggettati, cioè in «maschi addomesticati che hanno imparato a comportarsi secondo il canone femminista». Anche quelli del Corriere, quando la Paglia rilasciò all’inserto La Lettura la nota intervista in cui, oltre che questo, disse anche tutto il peggio dicibile de «l’avvocatessa o la dirigente bianca laureata a Yale e Harvard, che non ha più nulla di femminile», nel novembre scorso, non devono essersi sentiti molto bene. Una riappacificazione di genere, tra uomini e donne, doveva arrivare. Ora non è più sotterranea, grazie alle antifemministe di Twitter. Speriamo che a Repubblica.it non s’inventino l’appello rivolto agli uomini che vogliono dire alle dolci antifemministe che non sono «a loro disposizione». Lo temiamo. di Gemma Gateani