Il mestiere del genitore
Selvaggia Lucareli: Figli educati? Ma quali ricette, solo fortuna
di Selvaggia Lucarelli Non sono i figli a rendere faticoso l’essere genitori. Sono gli psicologi infantili. Meglio una sceneggiata di mio figlio al ristorante con lancio di posate e moti d’ira da far sembrare Sgarbi una violetta odorosa, che la consueta illuminante teoria sull’infallibile metodo educativo per tirar su figli educati, creativi, rispettosi, campioni olimpici e senza peli superflui. L’ultima formula magica per trasformare bimbi che ancora gattonano e hanno già due roghi domestici in curriculum in sobri damerini, l’hanno partorita gli psicologi infantili americani. Tenetevi forte perché è una teoria così rivoluzionaria da scardinare le fondamenta della pedagogia moderna oltre che accelerare lo scioglimento dei ghiacci, e cioè: se volete una prole invidiabile, meglio un elogio che le vostre cinque dita marchiate a fuoco sulla chiappa di vostro figlio. E le verità rivelate degli educatori americani mica si fermano qui: «L’eccesso di severità rende i bambini aggressivi». «Valorizzate i comportamenti buoni». «Abbracciate spesso i vostri figli». Sì, insomma, il nuoto è lo sport più completo, i gatti sono indipendenti, Renzi non lo voto ma mi è simpatico e così via. La teoria però ha anche risvolti più interessanti, del tipo: «Se il bambino si lamenta, fatelo anche voi: l’effetto straniante aiuterà a sdrammatizzare». In parole povere, gli psicologi infantili suggeriscono a rispettabili padri di famiglia a capo di una multinazionale, di battere i piedi e frignare per mezz’ora in un negozio di giocattoli se hanno finito i Lego Factory, per contare sull’effetto straniante. Ovviamente quello degli assistenti sociali che gli toglieranno la patria potestà in quindici secondi netti. Poi c’è l’appassionante concetto del castigo creativo: «Se vostro figlio si rifiuta di apparecchiare la tavola, fategli frequentare un corso di cucina, così sviluppa una competenza legata al suo atteggiamento negativo». E qui gli psicologi americani mi perdoneranno, ma se mio figlio si rifiuta di mettere due bicchieri su una tovaglia, io lo prendo molto delicatamente per un orecchio, non spendo seimila euro per fargli insegnare da Cracco a pulire una rana pescatrice. E poi che razza di teoria sarebbe? Se si rifiuta di frequentare i nonni, lo mando a lezione da Francesca Pascale? Lo so. Sono allergica al dogmatismo pedagogico e probabilmente qualche regola universalmente sacrosanta in fatto di educazione esiste anche, ma chiunque sia genitore sa che quella dei buoni consigli su come crescere figli perfetti, è una giungla intricata e ridicola in cui è vero tutto e il contrario di tutto. C’è la teoria della mamma tigre, ispirata al libro della cinese Amy Chua, in cui la mite signora racconta di quanto sia educativo lasciare sua figlia fuori dalla porta di casa in pieno inverno se si rifiuta di studiare violino. Un volume al cui confronto il “Mein Kampf” è un libro di ricette di Benedetta Parodi. E ovviamente, la signora Chua è in buona compagnia, perché accanto alla mamma tigre c’è anche il papà aquila, quello che non tollera errori e inciampi nei figli, dà un’educazione militaresca e li butta giù dalla rupe per insegnargli a volare. E qui mi si perdoni la psicologia da bar sotto casa, ma se proprio vogliamo scomodare la zoologia, la sensazione è che aquila e tigre siano entrambi destinati a avere figli “muli”, ovvero dei simpatici ragazzi destinati a prendere a calci i genitori non appena varcata la soglia dell’adolescenza. Ma quella dell’eccesso di severità e delle regole ferree è una teoria educativa dalle mille sfumature. Conosco madri che chiedono di spostare la prima alla Scala se coincide con l’orario del bagnetto del primogenito. Genitori che applicano l’ “Infant Potty Training”, ovvero la tecnica con cui a pochi mesi di vita un bambino imparerà a farla nel vasino e pure a centrare la turca a trecento metri di distanza, come se a spisciarsi per un anno nel pannolino si rischiasse di venir su come la Minetti. E poi c’è chi ti dice che se non lo allatti al seno, a tredici anni avrà il poster di Francesca Cipriani nella cameretta, chi ritiene che i figli debbano frequentare corsi di nuoto, tennis, pianoforte, sci d’acqua, mosaico e scrittura giapponese e che lasciargli quel sacrosanto quarto d’ora al giorno per rompersi la balle a casa, sia una scelta da genitore sciatto e poco attento. Ma c’è la corrente opposta, quella più vicina all’ultima teoria educativa americana, popolata da genitori orsetti, docili e protettivi, da mamme cocker, ansiose e avvolgenti e da mamme chiocce, destinate ad avere figli che rimarranno attaccati alla gonna della madre e nuore che gliela strapperanno a unghiate. Genitori totalmente in balia di figli prepotenti che cedono a ricatti che nemmeno i guerriglieri maoisti. E poi il metodo Montessori, per cui se dai ai bambini piatti e bicchieri di ceramica e di vetro, impareranno a prendersi cura delle cose e delle persone, roba che se è vero al mio prossimo fidanzato piazzerò un vaso cinese in mano dalla prima sera a cena. O il metodo steineriano, quello scelto per i figli di Berlusconi, che pareva pure aver funzionato finchè Barbara non s’è fidanzata con un calciatore come una Dilettuso qualunque. Insomma, il caos. Tanto più che esistono figli educati allo stesso modo con risultati decisamente diversi. Per dire, John e Lapo Elkann sembrano cresciuti l’uno dalla signorina Rottermaier e l’altro da Willy Wonka, per cui è chiaro che le teorie educative hanno più falle di un’arringa di Ghedini. E allora io dico la mia, visto che un figlio in curriculum ce l’ho. Quello che gli psicologi non hanno il coraggio di dire è che i figli sono un terno al lotto. Che puoi piegare una sfumatura, non l’indole. Che si va a tentativi. Che i figli spesso non ci somigliano e che tante volte si ricorre a un metodo perché speriamo che non diventino quello che sono, ma quello che siamo noi. Che puoi fare del tuo meglio e dare un colpetto col martello ai pezzi difettosi, ma l’ingranaggio è quello che ti consegna l’ostetrica il giorno più denso di incognite dell’esistenza di un genitore. È ora che qualcuno lo dica agli psicologi infantili. Ovviamente con delicatezza, e senza sculacciate.