Via Poma
Il portiere, il vicino di casa, il fidanzato: un giallo lungo vent'anni
E’ la sera del 7 agosto del 1990. In via Poma 2, a poca distanza da piazza Mazzini a Roma, nell’ufficio dell’Associazione italiana alberghi della gioventù, viene trovato il cadavere di Simonetta Cesaroni, 20 anni, trafitta da 29 colpi di arma bianca, forse un tagliacarte. La sorella Paola, preoccupata perché Simonetta non rincasava, dà l’allarme assieme al fidanzato: sul posto sono presenti anche il datore di lavoro della vittima, Salvatore Volponi e il figlio. Simonetta è nuda, ma per il medico legale non ha subito violenza sessuale. Portiere dello stabile Le indagini, condotte dal pm Pietro Catalani che ha affidato alla polizia gli accertamenti, ruotano subito attorno alla figura del portiere dello stabile, Pietrino Vanacore: nella stanza del delitto, infatti, è stato trovato poco sangue e così gli investigatori ipotizzano che l’assassino abbia avuto tutto il tempo per pulire e far sparire ogni traccia. Il 10 agosto proprio Vanacore viene fermato per una macchia ematica sospetta sui pantaloni. Il tribunale del riesame lo scarcera venti giorni dopo: quella macchia non ha nulla a che vedere con il sangue di Simonetta. L’8 ottobre sono noti i risultati dell’autopsia: il volto presenta sei ferite e diverse ecchimosi; una ferita al collo è trasfossa, ossia passata da parte a parte. Sono otto i tagli nella zona toracica, quattordici in quella pubico-genitale. La morte è avvenuta tra le 18 e le 18.30. Il 26 aprile del '91 il gip Giuseppe Pizzuti accoglie la richiesta della procura e archivia la posizione di Vanacore, di due suoi familiari e di altre tre persone che frequentavano l’ufficio di via Poma. Il nipote dell'architetto Valle Il 3 aprile del 1992, un avviso di garanzia viene notificato a Federico Valle, nipote dell’anziano architetto Cesare Valle, che abita nel palazzo di via Poma e che la notte del delitto aveva ospitato Vanacore. A chiamare in causa Valle è un testimone austriaco, Roland Voller, che dice di sapere chi e perché ha ucciso Simonetta. Il giovane Valle e di nuovo Vanacore vengono prosciolti (rispettivamente dall’accusa di omicidio e di favoreggiamento) dal gip Antonio Cappiello il 16 giugno del 1993, provvedimento poi confermato dalla Cassazione il 17 giugno del 1994. Il 20 agosto 2005, muore, a seguito di una pancreatite, il padre di Simonetta, Claudio, che ogni giorno, per anni, si presentava in procura per spronare gli inquirenti ('in primis' il pm Settembrino Nebbioso) a trovare l’assassino. Il fascicolo, nel 2004, viene preso in consegna dal pm Roberto Cavallone (attuale capo della procura di Sanremo) che decide di sottoporre alle analisi dei carabinieri del Ris gli indumenti di Simonetta Cesaroni che, da tempo repertati, non erano stati più oggetto di approfondimento L'ex fidanzato Il 6 settembre del 2007 Raniero Busco, all’epoca del delitto fidanzato di Simonetta, viene iscritto sul registro degli indagati per omicidio volontario: stando alle analisi scientifiche, c'è compatibilità tra il suo dna e le tracce biologiche scoperte su corpetto e reggiseno della vittima. Una lesione sul capezzolo sinistro di Simonetta, poi, sarebbe riconducibile a un suo morso. Il 28 maggio del 2009 Busco viene rinviato a giudizio e il 3 febbraio del 2010 compare come imputato davanti alla corte d’assise. Il suicidio di Vanacore Il 9 marzo viene trovato morto in mare, in località Torre Ovo, il portiere Pietrino Vanacore: tre giorni dopo avrebbe dovuto deporre in udienza come testimone. Per gli inquirenti è suicidio. Il 26 gennaio 2011 Busco viene condannato a 24 anni di carcere, la procura aveva chiesto l’ergastolo. Il 24 novembre 2011 comincia il processo d’assise d’appello: viene disposta una nuova perizia che smonta le conclusioni dei consulenti della procura. Il 23 aprile 2012 il sostituto procuratore generale Alberto Cozzella chiede la conferma della sentenza di primo grado e, in subordine, una nuova perizia "che sia degna di tale nome". Il 26 aprile la difesa sollecita l’assoluzione di Busco: "chi ha ucciso Simonetta è un mostro e Busco non lo è". Il 27 aprile, la corte d’assise d’appello assolve Busco per non aver commesso il fatto