Il bestiario di Pansa

Renzi vs Bersani, tra i due litiganti la sinistra non gode

Andrea Tempestini

di Giampaolo Pansa Nel passato politico di Matteo Renzi esiste un precedente che merita di essere ricordato. A febbraio del 2009 si tennero a Firenze le primarie del Partito democratico per scegliere il candidato sindaco della città.  Renzi, che era cresciuto nel Partito popolare ex Dc e aveva già guidato l’amministrazione provinciale, decise di partecipare alla gara. L’avversario numero uno era un amico: Lapo Pistelli, figlio di un brillante intellettuale della sinistra biancofiore, Nicola Pistelli, morto anzitempo in un incidente stradale. Lapo ne aveva raccolto l’eredità politica, con l’aggiunta di un carattere grintoso e un attivismo speciale.  Alla nomenklatura comunista fiorentina, in gran parte trasmigrata nel Pd, non andava a genio che Firenze, città simbolo per la sinistra, finisse nelle mani di un erede della Balena bianca. Così decise di far scendere in campo un candidato cresciuto nell’apparato del Pci: Michele Ventura, classe 1943. Con il linguaggio di oggi, era lui «l’usato sicuro», capace battere i due giovanotti bianchi. Era tanto usato che l’avevo conosciuto all’inizio degli anni Settanta da   funzionario della federazione fiorentina. I compagni lo chiamavano «il Castoro» per via della dentatura sporgente. La stessa che ha oggi e che i telespettatori conoscono. Poiché Ventura, ormai vicino ai 70 anni e deputato per la quarta volta, a Montecitorio siede accanto al segretario del partito, Pier Luigi Bersani.  SLOGAN ASTUTO Il giovane Renzi si preparò per bene alla battaglia, usando uno slogan astuto: «Facce nuove a Palazzo Vecchio». E vinse le primarie con il 40,5 per cento dei voti. Pistelli arrivò secondo con il 26,9 per cento. Per Ventura fu una catastrofe. Si piazzò soltanto quarto, con il 12,5 per cento. I voti raccolti da lui erano appena 4.653, meno di un terzo dei 15 mila ottenuti da Renzi.Nelle primarie che si terranno in autunno Bersani può essere cotto e mangiato da Renzi come accadde al povero Castoro? Difficile dirlo. Oggi quasi tutti i sondaggi vedono in testa il segretario del Pd, spesso con un buon vantaggio. Tuttavia è anche possibile che il sindaco di Firenze ce la faccia, ma soltanto a due condizioni. La prima è che l’elettorato democratico si convinca che soltanto lui è l’antidoto vero allo sfascismo di Beppe Grillo. La seconda è che la volontà renziana di mandare a casa le facce vecchie della sinistra porti ai seggi delle primarie un numero altissimo di elettori che di solito restano a casa. Qualcuno calcola che potrebbero arrivare a un milione o anche di più. È possibile? Il giro d’Italia del camper di Matteo è appena cominciato. E nessuno è in grado di prevedere quali sorprese riserverà. Fare pronostici non è un mestiere adatto a chi scrive sui giornali. Ma in certi casi l’azzardo si può tollerare. Per questo mi avventuro a dire che Renzi perderà la battaglia delle primarie. A vincere sarà l’usato sicuro di Bersani. Soprattutto per un motivo. Per nulla misterioso perché riguarda un dettaglio implacabile: l’anagrafe. Il grosso dell’elettorato democratico è composto da signore e signori di mezza età, dai cinquant’anni in su. Le riprese televisive delle tante feste del Pd lo rivelano di continuo: un mare di teste grigie o bianche. Pochi o pochissimi i giovani. Del resto, la popolazione italiana invecchia. E nei partiti tradizionali la militanza politica non è un affare per ventenni. Quando Renzi grida di voler mandare a casa la generazione del  Sessantotto, oggi zeppa di ultrasessantenni, nel Pd molti s’incavolano, pensando: «Quel giovanotto presuntuoso intende disfarsi anche di noi!». IL VERO DRAMMA Ma il dramma vero della sinistra italiana è ancora un altro. Dopo le primarie,   Bersani o Renzi dovranno affrontare la battaglia più ardua: le elezioni previste per la primavera del 2013. Se non ci saranno sorprese clamorose, come un  successo bombastico del Movimento 5 Stelle, è possibile che il Pd e i suoi alleati vincano e riescano a formare un governo. E dopo che cosa accadrà? La storia italiana dal 1945 in poi ci consegna soltanto due casi di governi rossi o rosa, sia pure guidati da un tecnico democristiano, Romano Prodi. E in entrambe le circostanze quei governi hanno avuto una sorte disastrosa. Nel 1996 Prodi è rimasto in sella per poco più di due anni, poi si è visto costretto a cedere il passo prima a Massimo D’Alema e poi a Giuliano Amato. Tre esecutivi in una sola legislatura: un’esperienza da brividi.  È andata ancora peggio nel 2006. In questo caso la memoria ci consegna un film dell’orrore. Quella storiaccia comincia con il no dei Ds e della Margherita alla richiesta del Professore di mandare in battaglia una lista con il suo nome. Allora Prodi domanda di poter disporre di una pattuglia consistente di parlamentari scelti da lui. Ma la tirchieria ottusa dei ras dell’Unione progressista, ossia dell’Ulivo,  gliene concede soltanto cinque. Da testa dura reggiana, Prodi non molla. Chiede di presentare la lista dell’Ulivo non soltanto alla Camera, ma anche al Senato. Piero Fassino e Francesco Rutelli gli dicono di no. Il motivo lo si capirà anni dopo: i capi dei Ds e della Margherita non volevano rinunciare a una parte dei rimborsi elettorali. L’ultima beffa è il programma del governo. Le trattative sono estenuanti e alla fine viene partorito un volume di quasi trecento pagine. Merito soprattutto delle sinistre radicali, quelle che Prodi definiva «le frange lunatiche». Tra loro spicca per verbosità suicida Rifondazione comunista, guidata da Fausto Bertinotti. Il Parolaio rosso pretende da Prodi «una vera svolta riformatrice», ossia il socialismo in salsa italica.  RECORD MONDIALE Il Professore arriva a Palazzo Chigi con una squadra di proporzioni ciclopiche. Accanto a lui ci sono due vicepremier, 23 ministri, 10 viceministri, 66 sottosegretari. In totale 102 eccellenze. Un record mondiale. Chiesi a Prodi: «Come mai questo baraccone?». Lui sospirò: «Avevo proposto un governo snello, di soli quindici ministri. I partiti si ribellarono. Ricordo bene il giorno che Fassino e Rutelli irruppero nel mio ufficio. E mi dissero: devi dare nove ministri ai Ds e sei alla Margherita. Il resto è venuto da sé».  Il resto fu un disastro: il secondo esecutivo di sinistra morì alla fine del gennaio 2008. Non era arrivato neppure a metà della legislatura. L’Italia ritornò a votare e vinse il centrodestra di Silvio Berlusconi. Il governo del Cavaliere sembrava pronto a lavorare per cinque anni. Poi si dimise nel novembre 2011. Lasciando il passo ai tecnici di Mario Monti.  Regalo questo amarcord a Bersani e a Renzi. In caso di vittoria dell’uno o dell’altro, quale certezza abbiamo che la storia non si ripeta? Come accade nella favola, c’è sempre una mela avvelenata nel passato della sinistra italiana. Chi la mangia finisce nei guai. E non risolve il disastro del paese. Forse è meglio affidarsi a un Monti bis. Un esecutivo che veda accanto al premier anche ministri indicati dai tre partiti maggiori. Quelli del noto A, B e C.  Potrebbe sembrare un governo di guerra o di salute pubblica? Sì, perché la battaglia per uscire dalla crisi sarà lunga e drammatica.