Finisce l’era Bossi
Maroni segretario, ma solo per 3 anni
È arrivato il giorno di Roberto Maroni segretario federale. L’ex ministro dell’Interno è il candidato unico alla leadership del Carroccio. Probabilmente verrà incoronato per acclamazione. Il fatto di non avere rivali è stata la sua ultima prova di forza. I bossiani più irriducibili hanno provato fino all’ultimo a offrirgli uno sfidante, ma non ce l’hanno fatta. Bobo si prende la Lega, sfruttando quel consenso che era esploso fragorosamente dopo la scelta di via Bellerio di impedirne i comizi. Era l’inizio dell’anno. Da allora, per Maroni è stato un crescendo di popolarità che neanche Bossi è riuscito ad arginare. Soprattutto dopo gli scandali che hanno travolto la famiglia del Senatur e i colonnelli come Rosi Mauro e Francesco Belsito, entrambi espulsi. Si diceva che il grande difetto di Maroni fosse la timidezza, da intendere come incapacità di andare fino in fondo nello scontro col Senatur. E invece, spinto dai fedelissimi che sono più maroniani di lui, da tempo Bobo ha rotto gli indugi. Pochi giorni fa, quando Umberto aveva avvertito su Sky Tg24 di non volersi fare da parte, Maroni ha risposto piccato: «Il segretario federale dovrà avere tutti i poteri». Altrimenti, ha spiegato a destra e manca, si sarebbe chiamato fuori perché «non voglio fare il Lorenzo Cesa della Lega». Infatti non s’è ritirato. Ha annunciato la candidatura all’ultimo minuto, solo ieri mattina, quando è andato in scena il primo giorno del congresso. Un antipasto alla camomilla in attesa del piatto forte di oggi. Quando Bossi voleva emarginare qualcuno, a Pontida come a Venezia, faceva in modo di ritagliargli un orario infelice per l’intervento. Ebbene, oggi il fondatore parlerà per primo, verso le 10. E Maroni avrà tutto il tempo per calibrare il suo discorso ed, eventualmente, rispondere. Bobo pensa a una segreteria breve, tre anni al massimo. Ha già studiato la situazione per farsi affiancare da tre vice sotto i 45 anni: il lombardo Giacomo Stucchi, il veneto Federico Caner e il piemontese Claudio Sacchetto. Vuole un partito con meno folclore e dita medie alzate e più concretezza. L’obiettivo politico più ghiotto a breve-medio termine si chiama Lombardia: le linguacce giurano che Bobo vorrebbe soffiare la poltrona a Roberto Formigoni, ma di sicuro i padani non intendono staccare la spina al governatore aprendo una crisi con il Pdl, nonostante i toni bellicosi che ieri ha sfoderato Matteo Salvini: «Formigoni, sveglia!». Al di là delle strategie politiche, per Maroni c’è un partito da ricucire e rialzare. I bossiani più irriducibili non potranno essere cacciati d’un botto, e lo stesso Bobo ha giurato di non voler fare purghe. Però il veleno non manca. Dopo che il ligure Giacomo Chiappori aveva pronosticato che «senza Umberto (Maroni, ndr) non riuscirà a reggere la Lega», ieri sono arrivati altri mortaretti. Giovanni Torri ha detto: «Non dimenticherò mai quel giorno a Bergamo con Bossi e le sue lacrime e un altro con la scopa in mano. Bossi non si mette in discussione». Poi ci sono i nodi territoriali. Soprattutto veneti. Che da sempre lamentano l’eccessivo peso della Lega Lombarda, nonostante la forza elettorale del Carroccio tra i Serenissimi. Bobo ha la fiducia assoluta del sindaco veronese Flavio Tosi, e ieri ha incassato il messaggio scaccia-tensioni del governatore Luca Zaia: gli avevano chiesto di dirigere i lavori, lui s’è detto onorato ma aveva già preso un altro impegno. Oggi, però, comanderà le operazioni. La ricetta di Bobo è lasciare massima libertà alle varie regioni (nazioni, nel vocabolario lumbard). In concreto: la Liga Veneta potrà allearsi con liste civiche o partiti in piena autonomia. La stessa cosa varrà per tutti gli altri territori. Maroni vuole una gestione collegiale, col coinvolgimento dei sindaci e degli amministratori in generale. La Lega 2.0 passa dalla monarchia assoluta di Bossi a una democrazia maroniana, o almeno è quello che spacciano i barbari sognanti che tifano Bobo. Il quale s’arrabbia se sente parlare di maroniani o bossiani, «c’è solo la Lega», perché è il primo mattoncino per ripartire. Roberto Calderoli, che con Maroni non sempre è andato d’amore e d’accordo, assicura: l’ex ministro dell’Interno «avrà gli stessi poteri di Bossi». Ieri Maroni ha fatto capolino al congresso senza prendere parola. Ci hanno pensato alcuni fedelissimi a tirare stoccate. Per Salvini «non ci dobbiamo vergognare, chi si deve vergognare può andarsene pure in Marocco», e i più maliziosi ci vedono una frecciata al Trota che poco tempo fa era andato in ferie nel paese africano. Più esplicito Tosi: «Chi ha sbagliato va allontanato», e alla fine dice solo «viva Maroni». di Matteo Pandini