Antonio Leone
Antonio Leone traccia la via: "Cpi condizionata dalla politica, ecco come l'Italia può lasciarla"
«Se non ci sono più le condizioni, l’Italia può tranquillamente decidere di uscire e quindi di non far più parte dei Paesi che hanno sottoscritto lo Statuto con cui venne istituita la Corte penale internazionale (Cpi) de L’Aia», afferma l’avvocato Antonio Leone, ex vice presidente della Camera dei deputati ed ex componente del Consiglio superiore della magistratura dove è stato anche presidente della Sezione disciplinare.
Presidente Leone, si discute da giorni sul fatto che l’Italia non aderisca più alla Cpi. Quale è la sua opinione al riguardo?
«Sono convinto che su questo aspetto si debba fare piena chiarezza. Il nostro Paese, nonostante ci sia chi affermi l’esatto contrario, non ha alcun obbligo di far parte della Cpi. Farne parte o non farne parte rientra in quelle che sono le scelte discrezionali, anche di ordine politico. Non ci sono vincoli, né sul piano teorico, né su quello giuridico, e tantomeno su quello pratico».
Come potrebbe avvenire “l’exit” dalla Cpi?
«Ovviamente spiegandone bene le ragioni e l’assenza, come detto, di qualsivoglia vincolo giuridico a farne parte. In caso contrario, una scelta del genere potrebbe prestare il fianco a strumentalizzazioni. Prescindendo però dall’uscita, si potrebbe comunque già adesso avviare una revisione dello Statuto o una sua globale riconsiderazione. È sotto gli occhi di tutti che si tratta di un organismo da rivedere e correggere».
Non è efficace?
«Su questo aspetto bisogna necessariamente fare una premessa. Il valore di organismi come la Cpi è molto più “simbolico” che concreto».
Possiamo dire che hanno una funzione di “deterrenza”?
«Certo. L’Italia è un Paese di una tale civiltà giuridica e di grandi tradizioni nel rispetto e nella tutela dei diritti che non ha bisogno di Corti internazionali. Non siamo una dittatura centroafricana».
Come si è evoluto il ruolo della Cpi?
«I crimini di guerra o crimini contro l’umanità vengono contestati al singolo e non allo Stato, altrimenti non potrebbero essere perseguiti».
Facciamo un esempio.
«Se in un carcere italiano si pratica la tortura o avvengono nefandezze nei confronti dei detenuti, non è che si processa lo Stato ma chine è l’autore, il direttore o il personale della polizia penitenziaria».
Alla Corte viene addebitata una certa “selettività” nel suo agire. È vero?
«Mi pare evidente che la politica sia entrata a gamba tesa nelle sue azioni. Qualcuno mi dovrebbe infatti spiegare perché è stato emesso un ordine di carcerazione nei confronti del primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu e di esponenti del suo governo e non invece nei confronti dei vari capi di Hamas».
Torniamo alle criticità.
«La prima è come dare esecutività alle decisioni della Cpi. Sul punto manca una efficacia universale perché sono molti i Paesi che non vi hanno aderito. Penso alle principali potenze mondiali come gli Stati Uniti, la Cina, la Russia, l’India. O anche Israele. In totale, più di metà della popolazione mondiale vive in Paesi su cui la Cpi non ha alcuna giurisdizione e quindi potere effettivo».
Un altro punto debole?
«Non ha una forza di polizia che possa procedere materialmente alla consegna degli imputati o dei condannati. Non ci sono i carabinieri dell’Aia».
Poi?
«Quello, a mio giudizio più significativo, è che la Corte non possiede alcun mezzo di coercizione per spingere i Paesi, anche quelli che ne riconoscono l’autorità e che hanno sottoscritto lo Statuto, a dare concreta esecuzione alle sue richieste e ai suoi mandati di cattura e arresto».
La politica cosa avrebbe dovuto fare?
«Esiste un problema, tutto italiano, che attiene al “disinteresse” nei confronti di questi organismi internazionali».
Può spiegarci meglio?
«In questi organismi c’è chi può dire e fare qualsiasi cosa. Ci dovrebbe essere invece maggiore condivisione. Bisognerebbe tutelare l’immagine del nostro Paese».
Come si spiega ciò?
«Diciamo che i rappresentanti italiani che vengono mandati in questi organismi sono sempre tutti magistrati».
Ed è un problema?
«La giustizia italiana, non lo dico solo io, è la meno efficace, con lungaggini e spesso sentenze contraddittorie che generano confusione nei cittadini. Eppure escono sempre relazioni che affermano l’esatto contrario, dove funziona tutto ed i problemi sono altri. Il motivo? Sono redatte dai magistrati che non possono mettere in cattiva luce i propri colleghi all’estero».
Che idea ha del caso del generale libico Almasri?
«Da quanto si è visto, tutti conoscevano bene i suoi spostamenti. Faceva il turista in Europa».
E si è deciso di procedere quando al termine del suo girovagare è arrivato in Italia...
«Esatto. Con una richiesta affrettata. È una circostanza che andrebbe chiarita».
Tutto terreno fertile per la polemica politica?
«Che è partita in maniera sbagliata. Da una parte si dà la colpa al ministro della Giustizia, dall’altra all’autorità giudiziaria che ha disposto la scarcerazione. Dove è la colpa del ministro? Non si trattava di un ordine di carcerazione compiuto ma di un ordine di carcerazione preventivo, cosiddetto “pre cautelare”. Come ha spiegato Carlo Nordio in Parlamento la procedura era diversa».
Difende il Guardasigilli?
«Guardi, si addebitano al ministro della Giustizia dei poteri che non ha. Anche nella normativa interna egli non ha voce in capitolo per quanto riguarda gli ordini di carcerazione. Nessuna norma dice il contrario. E su questo aspetto, mi pare, sono concordi tutti gli esperti di diritto internazionale».
Il governo è stato criticato per aver espulso Almasri.
«L’accompagnamento coattivo di stranieri pericolosi non è una novità. Si è sempre fatto e sempre si farà. Mi stupisco di chi ora si stupisce».