Caso Netanyahu
La Corte dell'Aia va chiusa, l'Italia ignori le sentenze
Non c’è solo una ragione di ripulsa emotiva, di ribellione istintiva rispetto all’inaccettabile inversione morale in virtù della quale si vorrebbe presentare il primo ministro israeliano, cioè il capo del paese aggredito il 7 ottobre dell’anno scorso, come un criminale internazionale, come un ricercato globale da arrestare ovunque possibile.
C’è - a mente fredda - anche e soprattutto un elemento razionale che dovrebbe indurre le democrazie occidentali a disapplicare la decisione della Corte penale internazionale e a trarre ogni opportuna conseguenza, inclusa l’uscita da quell’intesa sovranazionale.
Quando il 20 maggio scorso il procuratore capo della Corte avanzò la richiesta di arresto per il premier israeliano Netanyahu e per il suo ministro della Difesa Gallant, appaiati e parificati ai capi di Hamas e resi perfino intercambiabili rispetto ad essi, il Wall Street Journal parlò correttamente di “epitaffio” rispetto alla credibilità della giustizia internazionale. Oggi, dopo che quella richiesta è stata accolta dalla Corte, l’epitaffio è stato scolpito su una lapide di infamia.
In questo modo si sono centrati obiettivi a dir poco irricevibili: mettere sullo stesso piano l’esercito regolare di uno Stato democratico e un gruppo terroristico; confondere chi rispetta un codice di guerra e la Convenzione di Ginevra con chi invece punta, come strategia proclamata e deliberata, al massimo di sangue proprio e altrui; lanciare un opaco avvertimento a qualunque democrazia che pensi di poter rispondere con la forza a un eventuale attacco terroristico subìto; aprire la porta a un’autentica distopia, quella di dittatori, autocrati e Stati-canaglia sponsor del terrore che – coalizzati – processano le democrazie (...)
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