Togato

L'ultima di Nicola Gratteri: i giudici superstar devono spiegare per educare il popolo

Marco Patricelli

Il procuratore capo di Napoli Nicola Gratteri non è uno che le manda a dire, e neppure uno che non sa né come né dove comunicare. Tutt’altro. E quando dispensa pillole di saggezza giuridica davanti alle telecamere de La7, evento tutt’altro che raro, non è mai banale. Si è addirittura superato, scavalcando la vulgata, sostenendo che i magistrati non hanno mica il solo diritto alla libertà di espressione, ma addirittura il dovere di rendere il popolo edotto sui provvedimenti e sui loro pensieri in ogni campo. Lo prevede la Costituzione, lo vede chiaramente Gratteri nel presente e lo indica nel futuro. Il magistrato silente, che lavora al buio a un caso, circondato dalle carte processuali, dai codici e dalle decisioni della Suprema corte, è archeologia intellettuale e romanticismo professionale.

Homo sum, quindi cogito e parlo, sembrerebbe sostenere Gratteri, che ha esternato il suo pensiero a Lilli Gruber: in nome dell’illuminismo e delle conquiste dello Stato di diritto, con la trasformazione da sudditi a cittadini, il magistrato è cittadino come gli altri e deve parlare come tutti, perché «è importante spiegare, spesso con termini non tecnici, per rendere comprensibili la complessità del nostro lavoro e delle nostre decisioni. Penso che ci sia un difetto di comunicazione tra magistratura e opinione pubblica, e che spetti anche a noi colmare questa lacuna». Non la prima lacuna, peraltro, che si crea nella società italiana, a riprova del principio fisico che in Natura il vuoto non esiste e quando si manifesta viene subito colmato.

Altro che lo sprovveduto ministro Carlo Nordio, il quale qualcosa dovrebbe pur ricordare vista la sua lunga militanza con la toga, che ha esortato ad andarci piano con le dichiarazioni pubbliche, a tutela del principio di imparzialità e dell’idea stessa di imparzialità che se ne fanno i cittadini. Già, perché se Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto, lo deve essere anche la moglie, e l’avevano capito pure gli antichi romani. Altro che i magistrati dell’Era a.T., quella avanti Tangentopoli, che non li conosceva nessuno, non facevano le conferenze stampa, e si dedicavano tanto alle grandi inchieste straordinarie quanto alla Giustizia spicciola ordinaria: che non finisce sui giornali e in tv ma che fa tanto contenti quanti credono allo Stato di diritto.

Il mondo normale, insomma, mica ideale, di eguali e non di orwelliani “più uguali”, in cui non è necessario andare fino a Berlino per trovare un giudice che ascolti e applichi la Legge; ovvero, che ascolti e lavori all’amministrazione della Giustizia nell’ambito dei suoi doveri e dei suoi poteri. Infatti i giudici berlinesi, dopo quello evocato dal mugnaio Arnold davanti alle pretese di Re Federico II di Prussia, non li conosce nessuno se non ai convegni specialistici. Forse perché non partecipano ai talk show di Ard e Zdf e se si candidano per un incarico politico, generalmente mai di secondo piano, poi non tornano sullo scanno del tribunale come se fosse un giro di valzer o un passo di quadriglia. Sarà un caso isolato? O magari funziona proprio così nell’Europa del Diritto romano, del Common Law e delle formule da essi germinate nel corso dei secoli? Già, lì dove gli avvitamenti italiani sulla separazione delle carriere fanno sorridere come gli adulti di fronte ai litigi dei bambini che devono ancora crescere e misurarsi con la realtà e le regole che la gestiscono. 

Un certo Montesquieu, che si dovrebbe studiare ancora al corso di Filosofia del diritto, nel lontano XVIII secolo teorizzò nello «Spirito della Legge» la politica della separazione dei poteri, e definì il giudice come être inanimé, ma certamente non perché non avesse un’anima: l’organo giudicante doveva limitarsi ad applicare le disposizioni giuridiche risolutive, concretizzando la fattispecie astratta contenuta nella legge, mettendo da parte le proprie convinzioni, le proprie idee e persino le proprie emozioni. Deve quindi possedere la razionalità dell’essere inanimato che non si fa condizionare neppure dai sentimenti. Figurarsi se deve scendere nell’agone per sostenere e spiegare il proprio lavoro. Non servono né la spada né lo scudo dalle critiche e dai commenti, e neppure agitare la sindrome della persecuzione e il mito dell’intangibilità. Si consoli Gratteri, nessun italiano ce l’ha a priori con i giudici. Il vero nemico dell’italiano, come aveva ben compreso Ennio Flaiano, non è il magistrato ma l’arbitro di calcio perché emette un giudizio: sul campo di calcio tra i giocatori e non in tribuna tra i tifosi.