Condanne

Eni-Nigeria, ecco quanto ci sono costati l'inchiesta e gli errori di De Pasquale

Francesco Damato

L’avvocato difensore dell’ex pro- curatore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale e del collega Sergio Spadaro ha informato i giornalisti della «sofferenza dell’ingiustizia» avvertita dai suoi assistiti per essere stati condannati dal tribunale di Brescia a 8 mesi di carcere con attenuanti generiche e sospensione della pena per «rifiuto d’atti ufficio». Ma maggiore è la sofferenza forse di chi ha seguito la lunga, complicatissima vicenda giudiziaria che è appena costata la condanna di De Pasquale e Spadaro. Fra il 2018 e il 2021, per non parlare degli anni delle indagini preliminari al processo, costò all’Eni, al suo amministratore delegato Claudio Descalzi e al management della più famosa azienda pubblica italiana nel mondo il sospetto di corruzione internazionale per una concessione petrolifera in Nigeria. Processo conclusosi con l’assoluzione piena degli imputati, contestata dall’accusa con un ricorso all’Appello ritirato poi dalla Procura Generale.

È a quel processo, e alla coda tagliata- ripeto - dalla stessa Procura Generale, che si riferisce il «rifiuto d’atti d’ufficio» contestato a De Pasquale e a Spadaro dalla Procura di Brescia e confermato dal tribunale. Atti d’ufficio consistenti in prove a discarico degli imputati, e a carico invece di un ex dipendente dell’Eni che dopo essere stato licenziato li aveva accusati di corruzione per quella concessione petrolifera nigeriana. E lasciati sulla graticola dello sputtanamento - scusate il termine - per un bel po’ di tempo grazie all’aiuto ricevuto dai due magistrati dell’accusa condannati per questo a Brescia.

 

 

La sofferenza di chi ha seguito quella vicenda giudiziaria dell’Eni e dei suoi dirigenti, e che mi sono permesso di aggiungere a quella di chi subì quel processo e il tentativo di riaprirlo dopo la prima sentenza d’assoluzione, risulta maggiore, e ancora meno sopportabile, alla luce di un giudizio che, prima ancora del tribunale di Brescia, è arrivato a carico di De Pasquale dal Consiglio Superiore della Magistratura.

Che nello scorso mese di maggio, occupandosi di lui e del suo ruolo di procuratore aggiunto riconobbe con 23 voti e quattro astensioni come «dimostrata l’assenza - testuale - in capo al dottor De Pasquale dei prerequisiti dell’imparzialità e dell’equilibro, avendo reiteratamente esercitato la giurisdizione in modo non obiettivo né equo rispetto alle parti, nonché senza misura e senza moderazione». Il documento del Consiglio Superiore della Magistratura, diffuso nei maggiori dettagli dall’insospettabile Fatto Quotidiano, di solito molto riguardoso verso i magistrati, specie quelli d’accusa, stigmatizzò «la pervicacia dimostrata» sempre da De Pasquale «in tutte le sedi in cui è stato chiamato a illustrare il proprio operato»: una pervicacia «idonea a dimostrare» come «le condotte poste in essere... lungi dall’essere contingenti e occasionali, rappresentino un modus operandi consolidato e intimamente connesso al suo modo di intendere il ruolo ricoperto».

«Per questo - raccontava Il Fatto Quotidiano - il magistrato decadrà dall’incarico di procuratore aggiunto e tornerà un semplice sostituto. Come spesso accade, però, la decisione del Csm sui primi anni del suo mandato di dirigente è arrivata quando il magistrato ha già concluso il secondo quadriennio, l’ultimo possibile in base alla legge. La conseguenza più pesante, dunque, sarà l’impossibilità per De Pasquale di candidarsi a ulteriori incarichi direttivi».

Non per infierire, considerandogli giustamente il diritto di essere considerato sul piano penale innocente sino a condanna definitiva per il «rifiuto d’atti d’ufficio» nel processo di corruzione internazionale noto come Eni-Nigeria, ma per completezza d’informazione ricordo di Fabio De Pasquale anche la forte esposizione mediatica, a dir poco, procuratagli nel 1993 dal suicidio in carcere dell’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari. Che si uccise il 20 luglio, cinque giorni dopo essere stato interrogato da De Pasquale ricavando l’impressione di una possibile liberazione dopo 137 giorni di detenzione preventiva, o cautelare, per corruzione nell’ambito di Tangentopoli.

Seguì invece solo il suicidio quando Cagliarsi si accorse della sua sensazione sbagliata. L’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso mandò a Milano due ispettori che esclusero negligenza da parte di De Pasquale. Successivamente il Guardasigilli Filippo Mancuso tentò un’ispezione più generale a Milano sulla gestione delle indagini note come “Mani pulite” ma, scontratosi anche col presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, finì sfiduciato dal Senato.