Coincidenze?

Giovanni Toti non si dimette? E allora resta ai domiciliari

Pietro Senaldi

Pietà l’è morta. Giustizia e ritegno sono mai nati? Giovanni Toti resterà agli arresti domiciliari finché non lascerà la carica di presidente della Regione Liguria, a riprova che sono le dimissioni lo scopo vero dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dalla magistratura ai suoi danni ormai più di cinque settimane fa. Fino a ieri era un sospetto, un’interpretazione politica dell’inchiesta di Genova. Poi, nel pomeriggio è arrivato un lancio dell’agenzia d’informazione Ansa a dissipare nebbie e dubbi.

«La Procura va verso il parere negativo all’istanza di revoca degli arresti domiciliari al presidente. Per i pubblici ministeri Federico Manotti e Luca Monteverde, che hanno tempo fino a domani (oggi; ndr) per depositare il parere, ci sarebbe ancora il pericolo di inquinamento probatorio e di retrodatazione del reato. Toti, questo il ragionamento dei pm, non si è ancora dimesso e non sono stati sentiti ancora tutti i testimoni». Così scrivono i giornalisti e, per quanto appartengano a una categoria vituperata, è improbabile si siano inventati anche una sola virgola. Forse non hanno sottoposto il loro scritto al vaglio letterale della Procura, ma certo non hanno fatto uscire l’indiscrezione a sorpresa rispetto ai magistrati.

 

 

Con quella frase «resta agli arresti secondo il ragionamento dei pm perché non si è ancora dimesso», la stampa inchioda la magistratura, dimostra che la loro azione è guidata anche da una logica politica. In quale codice, pandetta, Costituzione sta scritto che un indagato debba dimettersi? Innocente fino al terzo grado di giudizio, Toti non dovrebbe mollare neppure se fosse rinviato a giudizio. I magistrati sono i primo a saperlo ma il punto è che liberarlo significherebbe vederlo tornare alla guida della Regione fino alla fine del suo mandato, perché il processo non si concluderebbe mai prima, e questo è uno smacco non tollerabile per chi è convinto di tenere le sorti di un uomo in pugno. Servono la genuflessione, la confessione del non reato, il pentimento per aver agito legalmente, solo dopo si ha diritto ad avere le garanzie che la legge concede a un imputato; prima: non essere arrestato se non ci sono i presupposti giuridici.

Restano pericolo d’inquinamento delle prove e di reiterazione del reato, fa filtrare la Procura, perché ci sono ancora tanti testimoni da sentire. Ma cosa temono i magistrati, che Toti si attacchi al telefono (intercettato) per manipolare le deposizioni dei testimoni? Hanno paura che tornando al suo lavoro in Regione alteri documenti con gli occhi di tutta Italia addosso, quando non lo ha fatto per tre anni, quando non supponeva di essere spiato? Come può il governatore perpetuare un supposto reato di corruzione elettorale se non si vota?

Toti è agli arresti per aver favorito la proroga trentennale della concessione del terminal Rinfuse ad Aldo Spinelli, una decisione presa dall’Autorità Portuale e dal Comitato del Porto, praticamente estranea alla Regione. Secondo i magistrati i 70mila euro di finanziamento lecito e registrato alla lista del presidente sarebbe il prezzo delle buone parole spese dal governatore per favorire un progetto in cui credeva. Il presidente è stato intercettato per oltre tre anni ma accusa e arresti si reggono su tre o quattro conversazioni interpretate maliziosamente. Non c’è altro. Eppure i pm rilanciano, quasi che l’inconsistenza del loro teorema svelata dalla stampa li incattivisca ogni giorno di più.

 

 

Sta al gip Paola Faggioni, che deciderà dell’istanza entro venerdì, rimettere le cose a posto. L’Associazione dei Magistrati ligure ha attaccato Libero per aver scritto che la mamma della signora è stata per dieci anni consigliere comunale a Genova per la Margherita e per il Pd ed è tuttora un’attivista. Ci hanno accusato di voler «screditare l’imparzialità e la correttezza della giudice». La dottoressa ha un’occasione unica per dimostrarci che siamo dalla parte del torto. I presupposti giuridici per l’arresto sono fragili, la legge non stabilisce che essere oggetto d’indagine comporti la decadenza dalla carica di presidente di Regione, le motivazioni politiche per tenere Toti fermo, si sostiene in tribunale, sono aliene dalla magistratura. Serve solo un atto di coraggio professionale: firmare la libertà per un presunto innocente scelto e confermato dai cittadini e anche per contraddire la sfacciataggine ostentata dai pm con la velina data all’Ansa. Sarebbe un gesto utile anche ai pm, e alla sinistra, perché scaccerebbe ogni sospetto che si tratti di un’inchiesta politica oltre che giuridica.

Sto scrivendo e accanto a me si siede una persona. Scopro che si tratta del senatore Antonio Caridi, di Forza Italia, arrestato nel 2016 quando era ancora in carica. Non si è mai dimesso malgrado abbia trascorso diciotto mesi in carcere di massima sicurezza, in cella con cinque signori, bagno turco e due docce per novanta persone. Il verdetto? Assolto con formula ampia perché il fatto non sussiste, ma solo nel 2021. Le accuse? Solite cose: mafia, massoneria, costruzioni della magistratura. Il Procuratore inquirente? Cafiero De Raho, oggi casualmente in Parlamento con i Cinquestelle. Senatore al posto dell’innocente Caridi e naturalmente in commissione antimafia. Una storia esemplare di quando la politica si arrende ai magistrati: l’accusa era formulata su ottomila pagine, Palazzo Madama diede il via libera alle manette in un paio di settimane. Quanti di coloro che hanno premuto il bottone avevano letto quei faldoni? Non se ne può più di chi maneggia in questo modo la vita delle persone e del Paese.